L’epica dell’infanzia contadina
Verderio Inferiore non sta «sotto terra», ma semplicemente più a Sud di Verderio Superiore, così come Monte di Malo non è la montagna, più o meno incantata, che sovrasta Malo, ma un comune autonomo, poco distante, anche se Luigi Meneghello e i suoi amici vi si recavano a veder sorgere la luna. Basti l’accostamento tra questa doppia coppia di toponimi, e le favolose illazioni che essi possono provocare, a mostrare il filo tematico ed emozionale che lega, pur nella loro diversità, il romanzo d’esordio di Luigi Meneghello (Libera nos a Malo , 1963) e il delizioso libretto di Giancarlo Consonni, appena uscito per l’editore La Vita Felice (Da grande voglio fare il poeta , pp.128, € 12).
Docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, ma anche poeta e pittore, Giancarlo Consonni evoca qui i giorni della sua infanzia, vissuta nella campagna lecchese, in anni che sono quelli dell’immediato dopoguerra: si tratta dunque di una generazione successiva rispetto a quella di Meneghello, segnata dal fascismo e poi dalla guerra. La ricostruzione, e l’avvio dell’Italia al suo breve miracolo economico, sono rivissuti da Consonni attraverso le lente trasformazioni che ne sono state sintomi, più che segni; la famiglia del protagonista è infatti ancora luogo di piccole e mescidate attività, in cui i mestieri vengono via via inventati, e spesso accumulati: dai trasporti all’agricoltura, alla conduzione di un’osteria che assorbe soprattutto la mamma, toscana, innamorata della scuola e della cultura.
La costruzione del racconto poggia su tre prospettive, ciascuna intestata a un diverso approccio. In primo luogo, e soprattutto, la prospettiva dell’architetto e dell’urbanista, attento a ricostruire la dimensione dello spazio abitato, con le corti coloniche plurifamiliari, il cui insieme di fatto costituiva la «struttura semplice e chiara» del paese, con le ville dei possidenti ora incastonate nel tessuto urbano, ora orgogliosamente separate da giardini e muri di cinta, e, infine, con i rustici a punteggiare il circostante paesaggio agrario, insieme alle inquietanti ellissi verdi dei roccoli. C’è poi la prospettiva dell’antropologo, che permette di rievocare un mondo brulicante: gli avventori dell’osteria, i cui racconti di guerre lontane affascinano le sere del bambino Giancarlo; i bergamini, pastori d’alta montagna che scendevano a svernare in paese, coi loro volti antichi; lo straccivendolo Busìn che un giorno sente, nel puzzo della sua abitazione-deposito, un miracoloso profumo di violette; il calzolaio Guido, dedito in gioventù, come seconda insospettabile attività, al furto con destrezza di cibarie. C’è infine la prospettiva del linguista, «storico» amoroso di un dialetto che già alla fine degli anni Cinquanta cominciava a mostrare segni di regresso rispetto all’italiano regionale: ma un linguista molto particolare, perché fin da piccolissimo (unico, nel suo orizzonte paesano) padrone non solo del dialetto locale, un milanese rustico, ma anche di un elegante toscano appreso dalla madre pistoiese, e dunque capace di distanziarsi, in certo modo criticamente, dalla comunità che l’uso esclusivo del dialetto identificava.
Ma ancor più conta, nel libro, il fluire delle sensazioni e dei ricordi, che spesso si ancorano a nomi di luoghi favolosi o bizzarri: lo stesso Verderio (dal latino Viridarium che, tenendo fede al suo nome, «ancora negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento era un giardino in tutto e per tutto»), ma anche Campegorino di Aicurzio che, in una festa di maggio, aveva fatto da sfondo all’incontro del nonno Carlìn e della nonna Milina, o Imbersago, dove una Madonna miracolosa era solita, un tempo, salvare i neonati dall’assalto dei lupi.
Infatti, questo libro è il libro di un poeta, e di un poeta che sa ritornare bambino, tratteggiando con grande gusto evocativo un angolo di mondo del quale lui e tutti i suoi coetanei di allora si sentivano i padroni, un luogo le cui «immense stanze» avevano «per pareti le robinie e per tetto il cielo».
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