by Sergio Segio | 28 Novembre 2013 8:57
NESSUN applauso, nessun grido accoglie alle 17,43 di un plumbeo mercoledì le parole del presidente Grasso che annuncia burocraticamente “la mancata convalida del senatore Silvio Berlusconi, proclamato eletto nella Regione Molise”, una
formula gelida e spenta che riduce il leader di Forza Italia a semplice rappresentante dei molisani. Anzi ex, da quel preciso momento. Paolo Romani si attacca al telefono. La segretaria-senatrice Mariarosaria Rossi si rimette il golfino nero. Sandro Bondi si fruga nelle tasche. Non c’è la drammaticità dell’espulsione, né lo schiaffo della decadenza, solo una fredda “mancata convalida”: l’uomo che fu il più potente d’Italia in un attimo scivola via in silenzio e senza farsi vedere da quel Parlamento che voleva riformare perché faceva solo perdere tempo al suo governo.
Nessuno si aspettava che il B-Day, il giorno del giudizio che gli uomini del condannato sono riusciti a rinviare per quattro mesi, alla fine si consumasse con un rituale stanco e sfilacciato. Ma il fatto che tutto fosse già stato detto — e che il voto palese togliesse
ogni incertezza all’esito dell’ultima disperata battaglia — non esentava i pretoriani del Cavaliere e i berlusconiani di complemento dal compito di difendere una trincea ormai perduta.
Così la seduta tanto a lungo rinviata e tanto a lungo temuta si apre con i senatori di Forza Italia che rimettono in campo uno dopo l’altro tutte le argomentazioni contro la decadenza: la norma è retroattiva, la legge è incostituzionale, bisogna aspettare la Corte europea, non si può votare a scrutinio palese. Ma quando il presidente della Giunta per le elezioni, Dario Stefàno, spiega all’aula come si è arrivati alla proposta di far decadere Berlusconi, il fedelissimo Sandro Bondi dopo un po’ non ce la fa più e sbotta: “Basta! Senatore Stefàno, lei è un azzeccagarbugli!”. Bondi è elettrico, ha deciso che qualcuno deve pagare per questo insopportabile
affronto ed è venuto in aula con il coltello tra i denti. Quando si trova davanti a Formigoni gli grida “Vergogna!”, e se non li separassero in tempo i due arriverebbero alle mani. Dirà più tardi la senatrice Annamaria Bernini che “oggi non è un 25 aprile, come pensa la sinistra, ma l’8 settembre delle istituzioni”.
In realtà, tra i banchi di quello che fu il Pdl si respira più un’aria da 25 luglio. E infatti Alessandra Mussolini, la nipote del duce, parla apertamente di “tradimento”. Chiama Alfano “il piranha”, ma anche “Al-Fini”, che per lei è un’offesa mortale. Si rivolge a Lupi, “il cui cognome è tutto un programma” a grida ai “poltronisti” traditori: “Io non avrei accettato il vostro appoggio, ipocriti!”. Ascoltandola, Bondi salta in piedi: “Brava!”. Poi vede arrivare in aula Renzo Piano, e chiede subito la parola. Per chiedere “se è moralmente opportuno e accettabile” che quel senatore a vita che lui ha visto poco a Palazzo Madama “si presenti oggi per votare sulla decadenza del presidente del centrodestra italiano”. Una domanda alla quale lui ovviamente ha la risposta: “Vergogna!”. Gasparri, che è nei pressi, si accoda subito: “Piano non è mai venuto in aula!”. Poi, fuori dall’aula, ringhia: “Quello è venuto solo per l’esecuzione. Come architetto mi tolgo il cappello, ma come politico può lustrarci le scarpe, che sono impolverate”. A loro, l’archi-star dà una lezione di eleganza zen: “Essere attaccato da Bondi e da Gasparri è sublime. Pura beatitudine”.
Poi è una raffica di avvertimenti alla sinistra, la sequenza degli interventi del centro-destra. D’Anna (Gal) paragona Berlusconi nientemeno che a Nelson Mandela e alla Timoshenko.
Minzolini profetizza una resurrezione del Cavaliere: “Si pensa di eliminare un avversario ma lo si trasforma in un martire se non in un eroe”. La Bernini arriva a citare (molto liberamente) Bertold Brecht: “Prima toccò ad alcuni, poi ad altri, e alla fine verranno a prendere anche noi”. Lei si considera già in lutto, e per questo è venuta in aula di nero vestita, come altre quattro senatrici (Alberti Casellati, Rossi, Bonfrisco e Rizzotti, ma non la Mussolini che con il nero ci va cauta) anche loro in total black funebre.
Eppure non c’è tensione nell’aula, almeno fino al momento in cui la grillina Paola Taverna parte in quarta elencando tutti i reati per i quali il Cavaliere è stato indagato, processato o condannato. Per arrivare rapidamente a una conclusione perentoria: “Il senatore Berlusconi, anzi il signor Berlusconi, è un delinquente abituale e recidivo!”. Apriti cielo. “Dillo agli italiani che lo votano” grida Manuela Repetti. “E’ un senatore della Repubblica!” protesta Malan. “Basta, sono sette mesi che li sopportiamo, questi grillini” urla Cardiello.
Il resto era già scritto. L’orgogliosa difesa del capogruppo del Pd, Zanda, della scelta di far applicare la legge Severino (“E’ la prima volta nella mia vita che sento definire colpo di stato il rigoroso rispetto della legge e delle sentenze”). La scelta della Lega di restare accanto all’alleato condannato, votando contro la decadenza.
E anche l’assedio finale al presidente Grasso, al quale prima Malan, poi Nitto Palma, quindi Compagna e infine Bruno chiedono con ogni motivazione possibile il voto segreto. Ma lui risponde no, no, no, no. “Si assuma la responsabilità di dirci di no” insiste Caliendo. “Ma quante volte me la devo assumere, questa responsabilità?”, domanda spazientito il presidente. Anche Bondi getta la spugna: “Cari amici, non serve a niente. Hanno già deciso”.
Alla fine si vota non sulla decadenza, ma sugli ordini del giorno che contestano la proposta di decadenza decisa dalla Giunta. Vengono bocciati tutti, l’ultimo per 192 a 113, con due astensioni. E allora, in un silenzioso brusìo, Grasso legge la formula prevista dal regolamento: “Si intendono pertanto approvate le conclusioni delle Giunta, nel senso di dichiarare la mancata convalida…”. Così, alle 17,43, Berlusconi diventa un ex senatore.
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