LE OMBRE DI MOSCA

by Sergio Segio | 26 Novembre 2013 9:50

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DA QUANDO Ronald Reagan e Margaret Thatcher sdoganarono Mikhail Gorbaciov, definendolo «un uomo con il quale si possono fare affari» (e Giovanni Paolo II lo accolse nelle sacre stanze Oltretevere). Oggi come ci si deve porre di fronte alla Russia neo-sovietica, impersonata da un leader del Cremlino che definisce «controllata» la «sua» democrazia, mette in galera gli oppositori, non nasconde la propria omofobia, anzi la fa diventare legge, soffoca il giornalismo indipendente, ricatta le ex repubbliche sovietiche che vogliono associarsi all’Unione europea?
Intendiamoci. Affari con Mosca, anche quando era la capitale dell’Urss e il sancta sanctorum del comunismo, se ne sono sempre fatti. Come si poteva disdegnare una superpotenza energetica, ancorché tecnologicamente sottosviluppata (ma proprio per
questo ancora più appetibile), con un sottosuolo ricco di tutti i minerali più preziosi e un mercato potenzialmente immenso per gli uomini d’affari dell’Occidente? Un vero e proprio Eldorado non appena si fosse un po’ aperto alle tentazioni del mercato. Lo aveva intuito più precocemente di tutti quel genio degli affari e delle relazioni che era Piero Savoretti (l’artefice dell’accordo Fiat-Urss per Togliattigrad del 1966), che con la sua Novasider andò a Mosca nel 1952, quando era ancora vivo Stalin e, come mi raccontò una volta, «nelle vetrine di via Gorkij c’erano i polli di cartone, perché quelli veri non li trovavi da nessuna parte».
Il dilemma, durante la Guerra fredda, era più politico che etico. Come fare accordi che potessero, attraverso il trasferimento magari indiretto di tecnologia, aiutare la corsa agli armamenti di chi preconizzava la fine del capitalismo e la vittoria finale del socialismo nel mondo? E che sfidava gli Stati Uniti nel computo delle testate nucleari e minacciava l’Europa, divisa in due dalla cortina di ferro, con i carri armati del Patto di Varsavia? Oggi, all’inverso, il dilemma è più etico che politico. La cortina di ferro non esiste più, il Muro di Berlino è crollato, l’Urss è implosa, molti dei suoi Paesi satelliti sono nella Nato e nell’Unione europea. Ma la Russia è lontana da essere una democrazia compiuta, il suo presidente si è fatto rieleggere per una sorta di mandato a vita, dopo aver aggirato la costituzione mettendo temporaneamente un fantoccio a tenergli calda la poltrona al Cremlino. Vladimir Putin è un oligarca della politica circondato, e nutrito finanziariamente, da oligarchi del bizines, come si dice in russo.
Silvio Berlusconi, da presidente del Consiglio, questo problema etico non lo ha mai avvertito. Anzi, semmai considerava il suo amico Putin un modello da imitare, libero di muoversi a suo piacimento senza un’opposizione vera, un Parlamento «perditempo, che impedisce di governare», una stampa invadente. Tanto che in uno dei loro numerosi incontri minacciò con il gesto della mitragliatrice una giornalista russa che aveva osato porre «all’amico Vladimir» una domanda imbarazzante su una sua presunta relazione sentimentale (e «l’amico Vladimir», il giorno dopo, fece chiudere il giornale della poveretta). Putin, che sa mostrare riconoscenza agli amici, almeno quanto sa essere implacabile con i nemici, gli ha ricambiato il favore a settembre, durante una riunione del Club di Valdai, quando di fronte a un imbarazzato Romano Prodi disse che «Berlusconi è sotto processo perché vive con le donne, mentre se fosse omosessuale nessuno lo avrebbe toccato con un dito». La visita di ieri a Palazzo Grazioli, dopo quella al Vaticano e al Quirinale, è dunque un gesto di coerenza, anche ideologica. Visto che Putin una volta affermò che «i russi sono esseri normali»: gli uomini vanno con le donne, le donne con gli uomini, e quelli che vanno con persone dello stesso sesso vanno in galera (che accadrà alle Olimpiadi di Sochi?).
Ma Enrico Letta e i suoi colleghi europei questo problema etico (che è tornato a essere anche politico con la vicenda ucraina così calda e gli attacchi diretti del Cremlino a Bruxelles) non possono non porselo. È vero che Putin, per il vertice intergovernativo di Trieste, il primo da tre anni a questa parte, ha dispiegato uno squadrone di oligarchi per ricordare all’Italia, secondo partner commerciale della Russia in Europa, la sua dipendenza economica da Mosca: dall’energia all’acciaio, dalle telecomunicazioni alla finanza. Il cerchio magico di San Pietroburgo, a cominciare da Aleksej Miller di Gazprom per finire con Gennadij Timchenko di Gunvor, è venuto a testimoniare la devozione al suo santo iniziatore e protettore. Però qualche parolina sulle pressioni, veri e propri ricatti, che Putin ha esercitato non solo sull’Ucraina, ma anche su altre ex repubbliche sovietiche, perché scegliessero l’amicizia con la Russia anziché l’associazione con la Ue, gli interlocutori italiani del presidente russo non possono non dirla. Altrimenti, proprio nella settimana in cui si devono firmare a Vilnius gli accordi di associazione alla Ue (sono rimaste in due, se non ci sono cancellazioni last minute: Moldavia e Georgia), la collaborazione economica diventa sudditanza politica. Angela Merkel ha avuto la sensibilità e/o la forza di mandare a Putin un messaggio forte e chiaro, sebbene la Germania sia il primo partner commerciale della Russia in Europa. «Alla prima occasione possibile», ha detto la cancelliera, «voglio discutere con Putin dei rapporti tra i Paesi dell’Europa orientale e l’Unione europea».
Per essere imparziali, è vero che grandi sono le responsabilità del presidente ucraino Yanukovich, che ha giocato una partita ambigua fino all’ultimo e che tra liberare Yulia Timoshenko e vendersi a Putin ha preferito il male per lui minore. Ed è anche vero che forse ai cittadini europei interessa molto di più, con i tempi che corrono, quello che l’Europa fa alle loro tasche piuttosto che quello che la Ue fa con l’Ucraina. Ma se ancora una volta l’Europa dimostra di non avere un minimo di coesione e di muscoli politici per farsi valere verso chi calpesta i diritti umani dei cittadini e quelli degli Stati ad autodeterminarsi, allora non dovremo meravigliarci se alle elezioni europee del prossimo anno vincerà l’astensionismo e, peggio, il Parlamento di Strasburgo vedrà una maggioranza di euroscettici. Perché, tacendo sull’Ucraina e accettando silenziosamente i diktat di Putin, l’Unione europea avrà dato ancora una volta ragione a chi l’accusa di essere soltanto un castello di scartoffie burocratiche.

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