Le democrazie a rischio globale

by Sergio Segio | 21 Novembre 2013 10:11

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Perché è proprio quel punto interrogativo a segnalare al lettore che di una sapiente indagine si tratta nel libro, ma senza teoremi politici, senza nascondere le debolezze e i vuoti che ancora accompagnano una globalizzazione giuridica che è tuttavia in marcia, che accresce di continuo le sue potenzialità e che ha già oggi una considerevole influenza nel «governo del mondo».
Fine giurista, ma anche attento politologo, Cassese spiega lui stesso che cosa lo ha spinto ad affrontare quel punto interrogativo: la volontà di proporre una visione non manichea del rapporto che intercorre tra la regolamentazione della globalizzazione e il potere degli Stati nazionali. Perché se alcuni studiosi sono convinti che lo Stato resti «forte» e vinca la partita, altri mettono l’accento sulle sue progressive e continue cessioni di sovranità a beneficio di regolamentazioni globali. E invece esiste la possibilità di sottrarsi a questo contrasto di assoluti, di guardare semplicemente alla realtà senza punti di partenza preconcetti. E l’analisi di Cassese, rigorosa, serrata e priva di compiacimenti astratti, coglie pienamente l’obiettivo.
Il mondo non è regolato soltanto dagli Stati, questo è il punto di partenza. Accanto ad essi agiscono, congiuntamente e su più livelli anche orizzontali, amministrazioni globali, istituzioni intergovernative, corti ultrastatali, organismi ibridi pubblici e privati, organizzazioni non governative. È la global polity , che nel linguaggio corrente viene chiamata global governance e cui nessuno ormai nega una forte presenza nel governo delle nazioni e dei rapporti internazionali. Beninteso non esistono un unico ordine giuridico né un governo globale, bensì molti regimi settoriali che sfuggono a ogni precisa gerarchia e che non sempre risolvono i loro problemi di funzionamento. L’esempio che si impone è quello delle Nazioni Unite, eppure anch’esse mancano di efficaci meccanismi di risoluzione delle controversie accessibili ai soggetti privati.
La costante necessità di bilanciare diversità nazionali con regole globali caratterizza del resto l’intera geografia della regolamentazione globale e del suo rapporto, in qualche modo limitato, con gli Stati. Eppure, i diversi regimi regolatori globali costituiscono ormai un enorme conglomerato di ordini giuridici interdipendenti. L’autore ne fornisce numerosi esempi, nel settore del commercio e in quello del lavoro, nelle regole ambientali, in quelle volte a difendere i diritti umani. Lo Stato non riceve ordini, bensì raccomandazioni, ma spesso, soprattutto se parliamo di democrazie, ha contribuito a far nascere quelle raccomandazioni, ha sottoscritto documenti, ha finanziato iniziative, a tal punto che trascurare il messaggio globale diventerebbe per il suo potere imbarazzante, se non impossibile. Cassese cita il caso dell’Organizzazione mondiale del commercio («Wto» nell’acronimo inglese), fortemente voluta dal mondo economico americano, accettata dagli altri, e poi rivelatasi severa sanzionatrice proprio nei confronti degli Usa in alcuni casi. Le regole globali, insomma, hanno una loro vita talvolta non pienamente strutturata o persino confusa, ma il più delle volte svolgono bene la loro funzione con il consenso di Stati che, volenti o nolenti, a loro non si possono più sottrarre. E le organizzazioni non governative in questa cornice svolgono un ruolo che può essere compreso con un semplice dato: in tutto il mondo nel 1951 erano 832, oggi sono 60 mila. E 120 sono i tribunali internazionali.
È evidente che una tale molteplicità di regole, regimi e fori offre nuove opportunità a soggetti pubblici e privati, per i quali l’ordinamento giuridico globale viene ad aggiungersi a quelli locale, regionale e nazionale. Ma resta un problema cruciale, quello della democrazia. Molto si discute se la globalizzazione sia un vulnus per la democrazia, dal momento che diminuisce il controllo elettorale sui governi nazionali, creando altri possibili interlocutori non legittimati attraverso il medesimo processo. Sabino Cassese non sottovaluta la questione. Piuttosto le affianca una serie di casi concreti che, senza affievolire il possibile dibattito, mostrano la presenza dell’elemento globale. L’Osce, organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che ha tra i suoi compiti quello di vegliare sulla regolarità delle elezioni nazionali e di promuovere i sistemi democratici. Il processo di allargamento dell’Unione Europea, che è vincolato ai «criteri di Copenaghen», richiedenti per l’adesione ben precise garanzie democratiche. Il ruolo dell’Onu e in particolare il suo Fondo per la democrazia, che sono strumenti volti alle medesime finalità. E poi la Convenzione europea dei diritti umani, che rappresenta un caso ancor più specifico di interferenza del diritto globale nel diritto nazionale attraverso una corte sovranazionale.
E poi, inevitabilmente, sorge l’interrogativo più scomodo: si può importare la democrazia, o la si può esportare magari con l’uso della forza? La storia offre esempi come la democratizzazione della Germania o del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, ma è impossibile non pensare a un caso ben più recente, quello dell’attacco dell’America di George Bush all’Iraq di Saddam Hussein. Cassese esprime il suo dubbio, la contrarietà di chi scrive andrebbe oltre. Ma l’essenziale è ricordare che successive elezioni non sono garanzia sufficiente di affermazione della democrazia, in Iraq o altrove. Quanto è davvero democratica una democrazia importata, che dipende da fattori esogeni? E d’altra parte, se la democrazia può nascere solo da sé, all’interno dello Stato e senza disponibilità di elezioni, si può immaginare il suo avvento al di fuori di uno strumento non democratico e nazionale, come sarebbe una rivolta popolare? Questa di alimentare le democrazie attraverso processi non necessariamente nazionali e senza uso delle armi è la sfida fondamentale che attende l’avanzare delle regole globali. Ma che esse avanzino è fuor di dubbio.

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