by Sergio Segio | 11 Novembre 2013 6:16
BOLOGNA — «Non era questo il mio disegno politico, prendo atto che ciò per cui mi sono impegnato in tutti questi anni non è riuscito. Ci sono state forze di ogni tipo, e non mi riferisco solo al centrosinistra, che mi hanno ostacolato in ogni modo e ancora fanno sentire il loro agire. E siccome, come dicono i miei concittadini reggiani, “non si può stare in mezzo all’uscio”, ho deciso di dedicarmi ad altro…». Non c’è nemmeno bisogno che l’ultimo spenga la luce. Ora che la porta si è chiusa, anzi, che Romano Prodi l’ha chiusa, si può discettare all’infinito di quando, in quale esatto momento storico, ha cominciato a logorarsi e poi a sfilacciarsi per poi infine rompersi quel filo che dal 1995 a qualche mese fa — attraverso due Ulivi, due governi, due tradimenti fratricidi, mille battaglie contro Berlusconi, un’imboscata quirinalizia e agguati di ogni tipo — ha fatto del Professore il simbolo di un centrosinistra che aspirava (obiettivo fallito) ad avere il suo centro gravitazionale lontano dalle oligarchie romane. Considerato lo spessore e le mille peripezie che hanno segnato la convivenza tra il due volte ex premier e la galassia dei post dc e post pci, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Il punto, piuttosto, è un altro: è giusto, come in automatico molti tendono ora a fare, interpretare la decisione prodiana di prendere definitivamente le distanze dalla sua creatura, prima rifiutandosi di ritirare la tessera pd e poi annunciando di voler disertare i gazebo delle primarie, solo e unicamente come una vendetta? Qualcosa, cioè, di pianificato a tavolino, consumato a freddo e destinato a fare rumore (oltre che male alla gracile costituzione del Pd), ma pur sempre una vendetta: certo legittima da parte di chi ritiene di aver subito un torto, ma comunque nata e maturata in un ambito emozionale, istintivo, impolitico e quindi per certi versi di corto respiro? Chi lo conosce esclude una lettura del genere: «No, è tutto molto più complesso, un lungo percorso segnato da una linea di coerenza…».
Tutto molto più prodiano. Ci sono gli artigli e la passione. Le rivalità e lo sguardo lungo sul Paese. Ogni parola è calcolata nell’uscita di scena del due volte ex premier. E non tutte vanno apparentemente nella stessa direzione. C’è l’artigliata, spietata, quando, nell’ammettere di aver sognato un Pd molto diverso, lui che assieme a Parisi e a Veltroni tanto si spesero, rovescia consapevolmente su quello attuale una bocciatura che più bruciante non si può, consapevole, così facendo, di mettere a dura prova equilibri di partito a dir poco fragili e di scavare ulteriori fossati tra la base e i vertici. Eppure è lo stesso Prodi che poco dopo, in contemporanea con l’annuncio di disertare le primarie, si augura con tutto il cuore che «tanti altri, in particolare moltissimi giovani, vadano a votare»: un messaggio che non è solo lo specchio di un affetto lungo vent’anni e incancellabile a dispetto di tutto, ma la riprova di quanto l’uomo, al netto dei propri bilanci politici, voglia ancora credere in un centrosinistra e in un’Italia diverse. In questa direzione si muove anche il Prodi che, dietro l’ufficialità, aggiunge un altro motivo al suo passo indietro: «Togliere ai miei tanti e sempre in azione nemici storici l’ennesimo pretesto per scatenare attorno alla mia persona, approfittando delle primarie, polveroni e polemiche, facendo di tutto per trasformarmi in un elemento di divisione di cui il partito e il Paese credo non abbiano in questo momento alcun bisogno».
Chiudere con il Pd è stata, oltre che tra le più dolorose, anche la più solitaria delle decisioni prodiane di questi ultimi anni. I suoi fedelissimi, quando una ventina di giorni fa si sono sentiti prospettare l’ipotesi che il Professore disertasse i gazebo, hanno provato a frenarlo, sapendo in partenza che sarebbe stato tutto inutile. «Qualcuno — raccontano gli intimi — ha tirato in ballo il disorientamento della base: “Romano, per tanti resti un simbolo”…». Altri hanno timidamente fatto presente che, con lui lontano, il sogno ulivista, già malconcio, rischiava la disfatta e che chi, all’interno del Pd, ancora sperava nel cambiamento sarebbe rimasto più solo. Niente da fare, argomentazioni già messe in conto dal Professore: «Ho giocato la mia partita, ora voi giocate la vostra».
Francesco Alberti
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