by Sergio Segio | 7 Novembre 2013 7:52
NON c’è ancora l’erba sulla terra smossa dell’ultima tomba. Terra fresca, scavata col piccone e rigettata nella fossa col badile, in fretta. Erano almeno vent’anni, qualcuno dice trenta, che qui non c’era una nuova sepoltura. Cercare nomi e date sulla pietra delle vecchie tombe è difficile. Quando un cimitero è in disuso, anche se resta consacrato e il cappellano viene a benedire nel giorno dei Morti, tutto degrada in fretta. L’erba cresce selvaggia nel quadrato del piccolo camposanto, le povere lapidi scoloriscono, il legno delle croci s’incurva, la vecchia cappella in centro al recinto bianco e quadrato sembra chiusa da secoli. E quell’unico cipresso, alto e solitario a sudovest ricorda una meridiana che segna solo il tempo passato. Ma c’è un tempo che non passa e viene a compiersi proprio qui. Perché questo è il luogo misterioso della sepoltura di Erich Priebke, capitano delle SS, l’aiutante di Kappler nel massacro delle Fosse Ardeatine, dove i tedeschi hanno giustiziato 335 prigionieri italiani per rappresaglia dopo l’attentato di via Rasella.
DIECI italiani per un tedesco, la misura criminale dell’eccidio. Una tragedia del Novecento che la lunga vita centenaria di Priebke ha tenuto aperta fino ad oggi, per una caparbietà nazista residua e intatta, che ha impedito al capitano, anche prima di morire, di chiedere scusa. Così, inevitabilmente, il caso Priebke dura oltre la morte del soldato, per quel che ha fatto e per come lo ha giudicato, offesa al dolore e alla storia, sfida aperta alla democrazia.
La prova è qui, nell’ultimo atto. Perché questo recinto dov’è sepolto Priebke — preannunciato da una croce di legno smangiato piantata in mezzo alle sterpaglie, come nel west americano — sta chiuso dentro un recinto più grande, con cancelli, riflettori, inferriate e chiavistelli. È il cimitero di un carcere, unico pezzo di terra italiana dove la morte di Priebke può tornare ad essere morte e non simbologia nazista, strumentalizzazione della teppaglia. È insieme la sede di una sepoltura dignitosa, come un Paese civile deve garantire anche al suo nemico più terribile, e la prova di un conflitto irriducibile e permanente, perché la memoria non rinuncia al giudizio su ciò che è accaduto.
Il segreto assoluto è la conferma di quanto sia ancora difficile un rendiconto pubblico e trasparente della tragedia del secolo scorso, perché una parte accetta il bilancio materiale di questa tragedia ma contesta il bilancio politico e morale. Un vecchio nazista processato e condannato deve essere sepolto con il timbro del segreto di terzo grado da parte dello Stato per questa ragione, e anche perché il peso del nome del capitano è tale che non si trova uno spazio pubblico disposto ad accoglierlo cadavere.
Il direttore del carcere, convocato a Roma per sapere che avrebbe dovuto ricevere l’ospite più indesiderato d’Italia, è ripartito col vincolo del segreto, i cinque detenuti che hanno risistemato la strada bianca che porta al cimitero, hanno raddrizzato per quanto potevano le croci sulle tombe dimenticate, hanno tagliato le erbacce, non sanno ancora oggi perché lo hanno fatto. Nemmeno le guardie conoscono il nome dell’ultimo arrivato, e naturalmente non lo sa il sindaco, il presidente della Regione, la comunità
cittadina.
Tuttavia attraverso il segreto che copre una procedura d’eccezione un capitano nazista autore di una strage ha potuto avere la sepoltura che una democrazia gli deve assicurare, nonostante l’orrore delle fosse comuni, di quei civili spinti nelle grotte romane in fila per cinque, con le mani legate dietro la schiena, costretti a inginocchiarsi e poi giustiziati uno ad uno con un colpo alla nuca per non sprecare proiettili. Purché il segreto non significhi anche anestesia della memoria, in uno Stato imbarazzato per ciò che dovrebbe dire ai suoi cittadini: la sepoltura del nemico (da Achille che restituisce il cadavere di Ettore a Priamo, dopo averlo trascinato nella polvere davanti alle mura di Troia) è un gesto di civiltà e un atto di umanità, che deve accompagnarsi col ricordo di quanto è avvenuto, per non dimenticare
e per non smarrire la nozione del Bene e del Male, dunque del giudizio. Per questo, se non si può far conoscere il luogo che ospita la tomba, è giusto far sapere che questa vicenda è conclusa, non resta sospesa, la democrazia risponde ai suoi doveri e dunque può riprendersi i suoi diritti, a partire dal bilancio di una vicenda tragica che come vediamo ha attraversato il secolo.
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Ma come si segreta, in pratica e in democrazia, l’atto finale di un pezzo di storia, tutto l’opposto di una questione privata? Quali sono i metodi, le procedure e i modi di questa soluzione italiana di una tragedia europea, negli anni in cui tutto è pubblico e il segreto è indifendibile?
C’erano due uomini a bordo dell’auto che è arrivata alle 3.45 del mattino davanti all’ingresso dell’aeroporto militare di Pratica di mare, a 35 chilometri da Roma: ma uno solo sapeva dove stavano andando e perché. L’altro pensava a guidare, nella notte tra un sabato e una domenica di fine ottobre. Quando è entrata, la macchina è stata registrata come una normale station wagon, colore grigio. Quando è uscita era un carro funebre in incognito, con la bara del capitano Erich Priebke nascosta sotto una coperta, per l’ultimo viaggio verso una sepoltura segreta.
Quella bara che la terra rifiutava era dal 16 ottobre dentro un hangar militare vuoto, con una finestra aperta. Dopo quattro giorni alla cassa venne rifatta una zincatura completa. Poi nessuno la toccò più. Dieci giorni senza saper cosa fare del corpo del nemico. A Roma il sindaco aveva vietato la sepoltura, la Chiesa aveva proibito anche i funerali religiosi. Nel giardino della fraternità lefebvriana di Albano si svolge una frettolosa benedizione della salma, tra i saluti nazisti e le proteste antifasciste. Poi, il governo delega il caso ad una piccola unità romana di crisi, tre persone. Provano con Germania e Argentina (dove Priebke aveva vissuto prima di essere estradato in Italia) ma i due Paesi non vogliono riprendersi la salma. Tentano con due istituti religiosi, ma il nuovo clima in Vaticano consiglia di dire no. Sondano quattro sindaci, per una sepoltura anonima nei loro comuni appartati, ma la risposta è negativa per paura di incidenti, manifestazioni naziste, proteste. La strada dei cimiteri militari tedeschi in Italia è bloccata perché il capitano non è morto in guerra.
Nessuno vuole la salma del boia. È morto a cent’anni, senza pentirsi, senza mai chiedere perdono, anzi rivendicando il suo antisemitismo, negando le camere a gas, banalizzando i numeri tremendi dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, rilanciando quel peccato tipicamente europeo (ma non solo) dell’obbedienza agli ordini ricevuti. Aveva camminato per le strade di Roma come un vecchio sopravvissuto ai suoi troppi morti, senza che la scorta dovesse mai intervenire per difenderlo, e senza mai pensare che questa era la normale diversità e superiorità della democrazia, che processa perché non dimentica, condanna in quanto vuole giustizia, ma rinuncia alla vendetta nei confronti del carnefice sconfitto.
Soltanto che da morto il corpo del vinto diventa un simbolo. Da vivo agisce, ciò che è stato entra in relazione con ciò che è, l’orrore rischia di relativizzarsi e l’uomo invecchia, si indebolisce, sembra disarmarsi e non fare più paura, come se il corpo diventasse incoerente con la ferocia degli atti compiuti che la mente invece ancora rivendica. Ma da morto non c’è più età, tutto riacquista una definitiva coerenza, l’identità si fissa per l’eternità, la morte chiede un nuovo giudizio, riapre i conti, obbliga il presente a riaccendere la memoria del passato. Il corpo è l’ultimo totem. C’è la tentazione di lottare per impadronirsene, cortocircuitando la politica e la storia per fissarle in ideologia perenne adesso che la morte non può più modificare la vicenda umana, che dunque può trapassare in simbolo.
È per evitare che la tomba del capitano diventi un sacrario nazista che l’unità di crisi sceglie la procedura segreta. Per questo prima chiede il consenso ai figli di Priebke, uno dei due non è favorevole alla cremazione, entrambi infine accettano il «funerale in località segreta temporanea, per ragioni di ordine pubblico ». A questo punto scatta il Nos, il nulla- osta di sicurezza, che consente di non rendere pubbliche le decisioni operative. Bisogna superare lo sbarramento dei sindaci, bisogna evitare pellegrinaggi nazisti sulla tomba, e anche oltraggi alla salma. Nello stesso tempo bisogna dare sepoltura al nemico, la bara nell’hangar di un aeroporto incomincia a diventare uno scandalo, la Germania chiede una conclusione dignitosa per la vicenda.
Che fare? Si riparte dallo stato giuridico del morto: era soldato, ma non può trovare posto in un cimitero militare. Era però anche detenuto, sia pure agli arresti domiciliari. E qui scatta la soluzione. Avrà una sepoltura da detenuto, nel camposanto di un carcere italiano, Così non serve il permesso di un sindaco, così soprattutto il luogo è protetto da possibili incursioni e strumentalizzazioni, così il corpo del boia può trovare una sua terra, sul suolo italiano, ma nel luogo dove si sconta la pena dopo la condanna.
Ecco dove sta andando quel carro funebre camuffato appena uscito da Pratica di mare. Un’auto civetta con due sottufficiali lo attende a un autogrill pochi chilometri dopo. Si mette in coda, come se fossero ancora possibili sorprese, farà da scorta fino alla prima tappa, due ore più tardi. Qui — sta finendo la notte — la bara trasborda, viene caricata su un altro mezzo. In piena domenica arriva a destinazione. Un altro cambio, un nuovo piccolo corteo, strade prima comode poi di mezza montagna, vento
quasi d’inverno, alberi che si piegano, strade piene di foglie. Quando si alza la sbarra, il furgone passa davanti all’ultima bandiera italiana. Avanti, poi una strada bianca. Oggi non è giorno di lavoro e non è nemmeno giorno di visite, i detenuti sono in cella. Nessuno vede quando dal furgone i due sottufficiali calano pale e picconi, e incominciano a scavare la terra. Due ore dopo è tutto finito. A Roma l’unità di crisi riceverà il messaggio che aspettava: tutto a posto, operazione terminata. Per sicurezza, il governo verrà informato qualche giorno dopo. Prima di ripartire gli uomini venuti da Roma piantano sulla tomba la croce di legno scuro che era stata intagliata nella capitale. Al centro non c’è un nome e neppure una data, solo un numero. Quel numero è conservato in una busta gialla con i sigilli nella cassaforte del funzionario che ha pilotato l’operazione. Verrà consegnato al figlio di Priebke che a dicembre arriverà da New York per visitare la tomba del padre, adesso che c’è la tomba.
Troppa segretezza? Qualcuno ricorda che fu proprio per l’ossessione della segretezza che i capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass decisero di uccidere i cinque prigionieri in più radunati per errore nelle cave, 335 anziché i 330 del calcolo esatto della rappresaglia: perché nessuno parlasse, in quanto l’azione doveva restare segreta. Poi la notizia dell’esplosione alle Fosse Ardeatine per chiudere l’accesso alle cave, i familiari dei prigionieri scomparsi che capiscono, vanno sul posto a deporre i loro fiori, e la segretezza non riesce più a nascondere l’orrore. Il Male, che doveva restare «sconosciuto persino al sole», non riesce a nascondersi e il mondo può sapere cos’è successo a Roma, quel rituale nazista da setta che compromette tutti nel sangue, con un colpo alla nuca assegnato ad ogni ufficiale e i militari che lavoravano negli uffici spinti nelle cave ad uccidere anche loro per condividere la carneficina, introiettandola. La segretezza non riuscì a impedire al mondo, da quel giorno in poi, di conoscere il significato dei nomi di Kappler e di Priebke.
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È con questo carico impossibile da sopportare che il cadavere del capitano è arrivato nel luogo della sepoltura: tutt’altro che spoglio. Attorno all’uomo delle SS si muove un mondo prigioniero, ma in pace e non in guerra. La regola è quella banale della democrazia quotidiana. Le guardie non sono armate, nelle loro divise blu. I detenuti sono in gran parte extracomunitari, molti africani, non hanno mai sentito pronunciare il nome di Priebke, credono che il cimitero sia un fabbricato del passato, dove stanno rinchiuse vecchie storie quasi senza nome, non questa, viva anche dopo la morte. Paradossalmente, è un angolo di mondo nuovo, separato dal cancello di ferro arrugginito del cimitero. E proprio qui è venuto a finire il Novecento italiano, davvero lunghissimo e ancora capace di essere pauroso. Proprio qui, in un carcere e in gran segreto, quasi come se dovesse essere protetto da se stesso.
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