La sinistra rottamata

by Sergio Segio | 25 Novembre 2013 8:40

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 NON c’era in pratica l’intero gruppo dirigente del centrosinistra nella seconda repubblica. Non c’erano D’Alema e Veltroni, Bersani e Marini, Bindi e Finocchiaro, Fioroni e Zanda e il resto della nomenclatura. Si sono rottamati da soli, pur di non assistere al trionfo annunciato del sindaco. Non era mai accaduto in vent’anni, in nessuna manifestazione pubblica. Ed è questo che colpisce, prima e dopo i discorsi. I candidati hanno seguito tutti un copione noto e sono stati in questo molto bravi tutti, compreso l’escluso Pittella. Renzi doveva dosare un discorso da piazza televisiva con l’esigenza di conquistare la platea dei funzionari e l’ha fatto con maestria: la convenzione (o la circonvenzione) del Pd gli è riuscita benissimo. Gianni Cuperlo si è confermato per quello che è, la versione più nobile e intelligente della declinante sinistra europea, dunque può promettere al popolo suo soltanto una sconfitta bella. Pippo Civati è ormai scientifico nel citare uno per uno i temi che appassionano gli utenti della rete, non poco per un partito incapace di farsi ascoltare dai quarantenni in giù.
Ma alla fine eravamo venuti tutti qui per capire cosa Renzi farà dal 9 dicembre di una vittoria che ha già in tasca e la risposta l’abbiamo avuta. Renzi continuerà a fare Renzi. Il Rottamatore manderà a casa l’intero gruppo dirigente e insieme a quello il governo delle larghe intese, meglio se subito, in modo da votare a primavera, con qualsiasi
legge elettorale. Non farà il segretario del Pd, che è un mestiere impossibile. Chiunque vi abbia provato ne è uscito con le ossa rotte. Ma il giovane Renzi ha capito che nel Pd si passa in fretta dalla domenica delle palme direttamente al calvario e dunque non finirà come Veltroni e Bersani. Si manterrà lontano dal Palazzo, a fare il sindaco di Firenze, verrà a Roma una volta alla settimana per tranquillizzare Letta e per gli altri sei giorni sparerà a palle incatenate contro il governo delle larghe intese. Peraltro, non è il solo. Nella giornata di ieri, se proprio si deve trovare un punto in comune fra i discorsi dei tre candidati alla segreteria del Pd, distanti anni luce, questo è l’ostilità nei confronti di un governo incapace di far accadere cose nuove. A sinistra è cominciato l’inverno dello scontento.
Per il resto, la distanza fra i due principali competitori, Renzi e Cuperlo è davvero abissale e inedita. Alfano e Berlusconi dicono le stesse cose e il Pdl si è diviso. Veltroni e D’Alema si odiavano fin dall’adolescenza, ma venivano da un ceppo comune. Renzi e Cuperlo non si odiano (anzi c’è perfino una carezza del deputato al sindaco nel saluto all’arrivo) perché non ne hanno bisogno, incarnano giù due mondi opposti, nell’antropologia prima che nell’ideologia. Non è soltanto questione di stile, linguaggio o banalmente di look, jeans contro completo scuro. Il sindaco di Firenze è il nostro Blair, in ritardo di qualche decennio. L’analogia fra la biografia, i discorsi, le parole d’ordine, le circostanze è impressionante. Nel ’93 un Blair coetaneo del Renzi di oggi si prese il vecchio Labour con un discorso assai simile a quello ascoltato all’Ergife e concluso con l’appello a concentrare la campagna elettorale sulla scuola. Gianni Cuperlo incarna i valori del socialismo classico, una storia lunga. Scrive meglio di quanto parli, come i leader di una volta, e il suo documento congressuale è uno dei migliori mai letti. E’ un autentico figlio del popolo, per quanto non ne abbia l’aria, e di conseguenza disprezza ogni forma di populismo. Il suo problema è che in Italia nessuno legge nulla, tantomeno i documenti politici, e il paese va pazzo per i miliardari populisti.
La peggiore e dunque più probabile delle ipotesi è che questi due mondi vadano alla rottura e alla scissione dopo l’8 dicembre. La migliore è che trovino un accordo, in vista di una missione storica che è più importante di Renzi, di Cuperlo, di Civati, della segreteria del Pd, del governo Letta e di tutti noi: la sconfitta politica del berlusconismo, nelle urne e non nelle aule di giustizia. Quella sconfitta che cambierebbe davvero il verso al Paese e ci restituirebbe un futuro. Ma sono in pochi a crederci e nessuno della vecchia guardia che ha disertato la giornata di ieri. Soltanto uno, Dario Franceschini, che si è accollato il compito di mediare fin tanto che sarà possibile fra la voglia di spaccare tutto del nostro novello Blair fiorentino e la volontà di conservare tutto della nomenclatura, ma anche lui, all’uscita dalla sala della convenzione, appare meno convinto. L’inverno dello scontento della sinistra rischia di non diventare mai un’estate sfolgorante, come da citazione, ma di prolungarsi all’infinito, nell’esercizio di un cinismo spicciolo che ripugnerebbe perfino al vero Riccardo III.

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