La Procura di Torino voleva risentire il Guardasigilli

by Sergio Segio | 20 Novembre 2013 7:57

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TORINO — Doveva essere un arrivederci, e non un addio. La procura aveva intenzione di risentire Annamaria Cancellieri. Lo scorso 6 novembre c’era stata una riunione successiva all’arrivo della notazione della Guardia di Finanza che rendeva ufficiale l’esistenza di una terza telefonata. Agli occhi dei magistrati torinesi quei tabulati stonavano con quanto detto dal ministro di Grazia e Giustizia nell’interrogatorio reso il 22 agosto al magistrato Vittorio Nessi. D’accordo, il verbale era generico, ma la frase «ho risposto» voleva dire tutto e niente. La valutazione comune era che ci fosse bisogno di un chiarimento.
La possibilità di un nuovo incontro, che per forza di cose avrebbe avuto toni meno amichevoli, dipendeva dall’effetto sorpresa. Nessuna imboscata, semplice dialettica tra testimone e inquirenti. Come nella prima audizione, il Guardasigilli non avrebbe dovuto sapere di cosa si trattava. Un conto è sentire una persona che non immagina cosa le verrà chiesto, un altro è chiederle di una telefonata che nel frattempo è finita su un quotidiano nazionale, ripresa da tutti gli altri media, sviscerata e analizzata in ogni sua possibile conseguenza.
La fuga di notizie ha ucciso nella culla l’ipotesi di una indagine torinese su Annamaria Cancellieri, lasciando spazio a una serie di recriminazioni e tensioni interne che non finiranno con l’invio degli atti a Roma, dove ieri è stato ufficialmente aperto un fascicolo di indagine. Quel nuovo tabulato non stravolgeva lo scenario. L’sms che Annamaria Cancellieri ha ricevuto da Antonino Ligresti risale al primo pomeriggio del 21 agosto, il giorno precedente l’interrogatorio del ministro. La sua risposta arriva in tarda serata. Passano quindi molte ore.
Ma quel lasso di tempo non rivestiva alcuna importanza per i pubblici ministeri, perché in mezzo, tra il messaggio del fratello di Salvatore e la chiamata del ministro, non succede nulla. I telefoni tacciono, non solo quelli dei due interlocutori, ma anche quelli di mariti, figli e dei loro familiari assortiti. Non ci sono chiamate che possano indurre il sospetto di una ulteriore comunicazione per interposta persona. Anche per questo, qualunque iscrizione nel registro degli indagati sarebbe risultata pretestuosa, aggettivo usato in quei giorni dal procuratore capo Giancarlo Caselli.
La scelta di non mettere sotto inchiesta il Guardasigilli è stata motivata anche alla Procura di Roma, con un testo che riassume e spiega le valutazioni fatte dai magistrati torinesi. Si scopre così che alcune delle eccezioni sollevate in questi giorni avevano un loro fondamento. L’ipotesi delle false informazioni al pubblico ministero, ad esempio, non è mai entrata nel novero delle cose possibili, perché il verbale del ministro è pur sempre inserito all’interno di un processo — alcuni imputati avevano già comunicato la scelta del rito abbreviato — che tratta reati finanziari. Le dichiarazioni della Cancellieri riguardavano i suoi rapporti con alcune persone, non avevano alcun rilievo sui fatti che erano oggetto dell’inchiesta. Qualora fossero state ritenute compromettenti sotto il profilo penale, avrebbero dovuto essere stralciate e «congelate» fino al termine del dibattimento principale.
L’unica strada percorribile, piuttosto in salita, era quella dell’abuso d’ufficio, in relazione all’interessamento del ministro alle condizioni di salute di Giulia Ligresti. Il nuovo incontro con il ministro avrebbe dovuto girare intorno a una lettura complessiva della vicenda. I pubblici ministeri volevano capire se ci fosse, e quale fosse, l’interesse a raccontare una verità parziale, tale è stata valutata la differenza tra i tabulati telefonici e quel verbale risultato inesatto, forse non per volontà della Cancellieri. Insomma, volevano capire quale poteva essere l’eventuale interesse a non dire tutto, al di là di un rapporto di amicizia rivendicato nell’interrogatorio dal Guardasigilli.
Era una questione anche e forse soprattutto tecnica, perché l’ipotesi di abuso d’ufficio deve prefigurare una condotta che ha un ingiusto vantaggio per chi la mette in atto. E così, svanita la possibilità di un incontro chiarificatore, qualunque reato è risultato «indimostrabile», come scrivono nella loro relazione i pubblici ministeri torinesi, e naturalmente nei corridoi nella Procura non manca chi fa notare che l’aggettivo non è stato scelto a caso. Esiste una certa differenza tra «indimostrabile» e «insussistente».
La lettera di trasmissione degli atti è anche una assunzione di responsabilità. Spiegare perché non si prende alcun provvedimento significa anche mettere una forte ipoteca sulle sorti di una eventuale nuova inchiesta. Ma il semplice invio dello scarno fascicolo sarebbe stato davvero un classico scaricamento del barile. E infatti fonti giudiziarie romane riferiscono che l’opinione espressa dai magistrati torinesi potrebbe fare da bussola a questa vicenda giudiziaria. Forse finisce qui, non solo a Torino. E non è stato un trionfo, per nessuno.
Marco Imarisio

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