by Sergio Segio | 16 Novembre 2013 7:43
Dove c’era il Popolo della libertà ora c’è un ground zero, e chissà in che modo rinascerà il centrodestra, quanto tempo servirà per riedificarlo e chi si intesterà il nuovo progetto, se l’architetto che per venti anni l’ha disegnato a propria immagine e somiglianza avrà ancora la forza per proporne uno nuovo.
Di certo la scissione certifica l’incapacità di Berlusconi a imporsi nel conflitto interno al suo partito. È una sconfitta politica per tutti ma soprattutto per il Cavaliere, a cui il fallimento forse brucia più della stessa decadenza. Un mar Rosso lo separa ormai da Alfano che a sera si aggirava tra i brindisi degli innovatori, nella sala dove don Sturzo lanciò l’appello ai «liberi e forti», con un velo di commozione che non riusciva a dissimulare. E solo dopo, nel chiuso di una stanza, si è sciolto insieme a Lupi. Eppure i due ieri pomeriggio si ripetevano contenti di aver trovato l’intesa con Berlusconi, e anche il Cavaliere aveva partecipato alla festa con una battuta: «Ma io posso venire con voi alla riunione?».
Per la prima volta era stato scritto nero su bianco quello che Alfano e il «presidente» si erano ripetuti per settimane, apportando al progetto della nuova Forza Italia un paio di modifiche al disegno originario impostato dai lealisti. Sta nelle righe in grassetto di un documento di quattro pagine l’accordo che non è poi stato, e che avrebbe evitato la rottura. In un inciso si stabiliva che Forza Italia avrebbe continuato a dare sostegno al governo «anche nel caso in cui il Senato dovesse votare la decadenza del presidente Berlusconi». E in un altro capoverso si formalizzavano i tre coordinatori, a cui affidare la responsabilità di formare le liste «a garanzia della reale rappresentatività e del radicamento sui territori delle principali aree politiche e culturali del movimento». È vero che sul resto tutto il gruppo dirigente era concorde, ma quei passaggi mutavano il profilo del partito, come i calcoli statici di un grattacielo.
Ci ha creduto davvero Berlusconi quando in un quarto d’ora ha accettato le modifiche al progetto apportate d’intesa con il ministro Quagliariello, prima di sconfessarle? O aspettava che i lealisti gli dicessero di no per rinnegarle? In un caso come nell’altro vorrebbe dire che il Cavaliere ha già abdicato, che nel legittimo scontro tra Fitto e Alfano ha perso il potere della firma di architetto. Ecco perché i mediatori gli avevano consigliato di far saltare all’ultimo momento il Consiglio nazionale, per non sancire con il suo imprimatur la sua destituzione. Certo, a Berlusconi resta il controllo del consenso, ma la sfida delle nuove generazioni è stata ufficializzata. E c’è un momento in cui tutto ciò è avvenuto, quando ha lasciato i ministri in una stanza della sua residenza romana, per tornarci qualche minuto dopo: «Va bene, convochiamo stasera l’ufficio di presidenza per ratificare le modifiche al documento. Ho parlato con gli altri, sono d’accordo». Non era vero.
Sessanta parlamentari seguiranno Alfano nel «Nuovo centrodestra». Se sarà un progetto o solo un avventura non lo si capirà da possibili, ulteriori arrivi di deputati e senatori, o dall’aggregazione con altre forze, ma dalla capacità di dar seguito alla scelta con l’azione di governo. Dall’altra parte Fitto avrà il compito di evitare che certe pulsioni nella nuova Forza Italia non riducano il berlusconismo a una moneta fuori corso. Si preannuncia una battaglia aspra, giocata sul territorio e nelle Camere proprio su quei due passaggi del documento che sono stati al centro della contesa. «Angelino» punterà a difendere il perimetro delle larghe intese che «Raffaele» minaccerà fin da domani, e per riuscirci dovrà farsi valere sui temi sensibili del lavoro e delle tasse. Non sarà facile. Come non sarà facile il test elettorale delle Europee.
Paradossalmente, invece, il vice premier avrà più facilità di muoversi sul terreno della giustizia, dove sarà chiamato a sfidare il centrosinistra alla riforma. Alfano potrà imporre al Pd di calare la maschera e mostrarsi con il suo vero volto: se è vero che — da Bersani a Renzi, passando per D’Alema — tutti hanno sempre sostenuto la necessità di ristabilire l’equilibrio tra il potere politico e l’ordine giudiziario, senza più l’alibi di Berlusconi e delle leggi ad personam, si capirà se il garantismo prevarrà sul giustizialismo. E così il «traditore» — perché questo trattamento si aspetta oggi l’ex segretario del Pdl — potrà mostrarsi come il miglior alleato di Berlusconi, magari appoggiando anche i referendum radicali.
Non c’è il tempo di commuoversi per ciò che è stato, perché lì dove sorgeva il Popolo delle libertà e ora c’è un ground zero, le macerie non resteranno a lungo. Altri architetti potrebbero edificare con altri progetti. È la politica, bellezza.
Francesco Verderami
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