La nuova dottrina di Obama, uragano che spariglia le alleanze

by Sergio Segio | 10 Novembre 2013 8:18

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L’uragano che si sta avvicinando (secondo le previsioni di Chemi Shalev sul quotidiano Haaretz ) rischia di sfasciare le relazioni tra Israele e gli Stati Uniti. L’occhio del ciclone sono i colloqui in corso a Ginevra con gli iraniani, i negoziati hanno l’obiettivo di raggiungere un accordo che il premier Benjamin Netanyahu definisce «pessimo» ancora prima che venga firmato.
Da un lato il suo governo soffia nel tifone ripetendo la minaccia di un attacco militare contro le installazioni nucleari degli ayatollah, dall’altro si muove per trovare acque meno agitate dove stringere nuovi patti. Negli anni Cinquanta il fondatore della patria David Ben-Gurion tesseva quella che aveva battezzato «la dottrina della periferia»: circondata da Paesi arabi ostili, Israele aveva bisogno di costruire rapporti con nazioni più lontane in chilometri ma più vicine in interessi. È l’epoca dei legami con l’Etiopia, l’Iran e la Turchia. Da tre anni ormai Ankara si sta allontanando con la flottiglia che era diretta verso Gaza e l’intervento delle forze speciali di Tsahal (nove morti tra gli attivisti turchi). Teheran è andata nel 1979 con la rivoluzione di Khomeini. Le nuove nazioni «periferiche» sono l’India, la Grecia, l’Azerbaijan, soci economici e militari adatti ad alleviare (solo in parte) i dolori delle crepe nel matrimonio con Washington. Le scelte americane stanno irritando anche un altro storico alleato in Medio Oriente. L’Arabia Saudita esprime le stesse critiche alla strategia del presidente Barack Obama manifestate dagli israeliani. Parole che risuonano confortanti («è arabo ma sembra ebraico») alle orecchie affaticate di Tzipi Livni, il ministro della Giustizia incaricata delle trattative con i palestinesi. «Condividiamo le iniziative proposte dai sauditi per impedire a Teheran di fabbricare la bomba atomica. Dobbiamo cooperare con quei Paesi che capiscono quanto noi la minaccia iraniana». Riad critica anche le mosse americane in Siria. Non capisce perché Washington sia così riluttante a finanziare i ribelli che combattono contro il regime (supplisce con rifornimenti di armi e petrodollari), disapprova l’accordo sullo smantellamento dell’arsenale chimico che ha riabilitato Bashar Assad come interlocutore internazionale. I sauditi hanno rifiutato la poltrona — a cui per anni hanno ambito — al consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, perché lo considerano inefficace sulla questione palestinese e soprattutto su Iran/Siria: russi e cinesi hanno contrastato con il veto qualunque azione occidentale. Dove la Casa Bianca sceglie di non intervenire, la casa reale cerca di rimediare e adesso sta investendo miliardi per sostenere i militari che hanno destituito il presidente egiziano Mohamed Morsi. Il principe Bandar bin Sultan, capo dei servizi segreti sauditi, sembra temere l’espansione russa nella regione più degli Stati Uniti. Riempire le casse dei generali è un modo di rallentare l’avvicinamento già in atto tra il Cairo e Mosca. Sarebbe un ritorno ai tempi di Gamal Abdel Nasser, che quarant’anni fa combattè contro gli israeliani con le armi sovietiche.

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