La maledizione del secondo mandato che non perdona i presidenti americani

by Sergio Segio | 18 Novembre 2013 6:54

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WASHINGTON — Sciolti finalmente dalle catene elettorali, liberi di contemplare il proprio posto nella Storia, i presidenti americani rieletti precipitano nella “maledizione del secondo mandato”, quella che sta consumando Obama. Forse per il crollo della droga elettorale che per tutta la vita li ha stimolati con alluvioni di adrenalina, o troppo sicuri ormai della propria definitiva assunzione nel cielo dei Grandi, gli uomini, per ora soltanto uomini, ai quali il Paese affida un secondo giro sul più vertiginoso otto volante del mondo si afflosciano e deludono.
Alla “maledizione” di Tecumseh, il capo indiano Shawnee tradito dai bianchi che promise morte prematura a tutti gli eletti negli anni con lo “zero” finale e spesso ci prese (Kennedy fu eletto nel 1960), a quella di Babe Ruth il giocatore di baseball cacciato da Boston che garantì sconfitte ai traditori per mezzo secolo, fino a quella più umiliante di Montezuma per turisti americani in Messico, il folclore nazionale vuole leggere qualche favolistico incantesimo nella banalità dell’insuccesso.
Il disastro di Barack Obama, abbattuto nella credibilità e quindi nella popolarità dall’orrendo pasticcio della “Obamacare”, sembra essere la conferma che la “maledizione del secondo mandato” esiste. Come se il fato improvvisamente si pentisse di avere permesso che la corona di re costituzionale si posasse sullo stesso capo per due volte, le speranze e le illusioni di un corso trionfale verso la pensione, tendono a dissolversi.
Sono soltanto 21, meno della metà, i presidenti rieletti nei 220 anni di esistenza degli Stati Uniti e fra di loro appena 13 hanno portato a termine il doppio turno, evitando malattie, o proiettili, che li fermarono prematuramente. Ma anche chi è riuscito ad arrivare al termine ha incontrato e provocato, nei secondi quattro anni, molte più delusioni che soddisfazioni. Il calco della infelicità, o del disastro, per i “two term president”, per i capi di stato rieletti, fu formato già dal primo, da quel George Washington che fu riportato sul trono trionfalmente nel 1793 e consumò il secondo quadriennio sotto il costante attacco dei giorni e della classe politica, angosciato dal timore continuo di un ritorno in forze degli inglesi per riprendersi quella colonia che proprio lui aveva strappato a Giorgio III d’Inghilterra. Nel suo messaggio d’addio, il “Padre della Patria” sfogò tutta la propria amarezza contro i partiti. Si ritirò da sconfitto, lui, il Vincitore.
Ma è stato nel XX secolo che il maleficio del secondo mandato ha colpito con più accanimento. Woodroow Wilson di ritorno dall’Europa e dal Trattato di Versailles, fu abbattuto da un ictus, che lo lasciò debole e marginalizzato nei suoi ultimi anni alla Casa Bianca. Franklyn Delano Roosevelt, che di mandati ebbe addirittura tre, prima della modifica alla Costituzione, conobbe, nel secondo, i momenti peggiori della propria amministrazione, sfiorando la possibilità di essere «impeached » per alto tradimento. E se Eisnhower godette, ripetuti infarti a parte, di un benigno e quieto secondo mandato, fu nel proprio
secondo giro sull’ottovolante del potere che Richard Nixon si schiantò nella dimissioni provocate dal Watergate nel ‘74.
Nate Silver, il genio delle statistiche e delle ricerche quantitative sulla politica, dissente dal mito della “maledizione” e fa notare
che i presidenti davvero impopolari o falliti non sono rieletti, dunque non possono ovviamente subire cadute durante il secondo turno. E’ privilegio dei rieletti fallire o vedere la propria popolarità precipitare nei sondaggi, come accadde a George W Bush, passato dall’89% del primo mandato al minimo storico del 37% nel secondo quando si invaghì di una impopolarissima proposta per privatizzare le pensioni e dovette assistere alla decomposizione sanguinosa della «democrazia esportata» a cannonate in Iraq.
Nessuno può sapere che cosa, e come avrebbe fatto John F. Kennedy se fosse riuscito a restare vivo e farsi rieleggere nel 1964. Se oggi è giudicato come il più amato nella storia della presidenza, con la nostalgia e il sentimentalismo di chi rimpiange i fiori recisi prima che potessero davvero sbocciare, ci sono abbastanza elementi nei suoi mille giorni, dal ginepraio vietnamita ai rovi dei diritti civili che lui esitava a toccare, per fare pensare che la “maledizione” non avrebbe risparmiato neppure lui. Come non risparmiò neppure Reagan, impaniato nello scandalo dei finanziamenti illegali ai ribelli antiregime in Nicaragua, e risucchiò Bill Clinton, trascinato davanti al tribunale parlamentare e salvato soltanto da un voto di partito e dall’economia che prosperava.
La vera maledizione, che colpisce troppi presidenti diversi fra loro per avere spiegazioni ideologiche o politiche, è soltanto il rovescio della “benedizione” che li aveva portati al successo. E’ la “maledizione delle aspettative”, la trappola che scatta. Nonostante le ormai ripetute dimostrazioni del contrario, l’elettorato, l’opinione pubblica, i media, si attendono per gli ultimi quattro anni di presidenza, quando finalmente le preoccupazioni elettoralistiche sono svanite per sempre, che quell’uomo dia il meglio di sé. Che paghi con interessi prodigiosi quella cambiale di fiducia che la nazione aveva firmato per lui nella prima vittoria e che ha rinnovato con la seconda. E’ la sindrome dell’“ora facci vedere quello che sai fare”.
Si dimentica, nell’euforia del rinnovo, che questi uomini sono — con rare eccezioni come Eisenhower il Cincinnato vittorioso richiamato dai suoi ozi e dal suo golf — animali politici, pugili da ring elettorali che vivono della carica, della trance agonistica dello scontro. Dal primo giorno della propria elezione, tutti cominciano a pensare alla rielezioni, a come posizionarsi, e muoversi, per tornare a vincere quattro anni dopo. Quando le luci sul ring si spengono, quando cala la tensione, tendono a sbagliare, a smarrirsi, a distrarsi. A umanizzarsi. La desolante figuraccia fatta da Obama sulla sanità, le sue balbettanti giustificazioni dopo l’esplosione del Datagate, quell’atteggiamento insieme distaccato ed esitante esibito nei momenti di crisi, insinuano il sospetto che dietro la “maledizione del secondo mandato” ci sia una spiegazione molto più banale: che questi meravigliosi purosangue da battaglie elettorali siano, al momento di governare da soli, creature di ben più modesto pelo.

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