La guerra infinita di Bagdad dove anche le soap-opera raccontano l’incubo Al Qaeda
BAGDAD — I carnefici del terrore hanno facce qualunque, non ceffi patibolari. Uno di loro studia legge, un altro fa il meccanico, un terzo lavora in banca. Quando raccontano dell’attacco contro un penitenziario compiuto assieme a un manipolo di kamikaze o dell’ultima autobomba che hanno fatto esplodere in un affollato mercato di Bagdad, lo fanno con tono sommesso. Descrivono i loro eccidi senza enfasi, ma tutti si dichiarano orgogliosamente “soldati” di Al Qaeda, anche adesso che hanno i polsi ammanettati e che indossano la tuta dei carcerati. Le loro confessioni sono state raccolte in un video che ci mostra il generale Abdul Amir Alshamry, capo della squadra antiterrorismo in Iraq, nel suo ufficio all’interno della blindatissima “green zone”. «Questi li abbiamo catturati nei giorni scorsi grazie alle misure adottate per fronteggiare la nuova ondata di attacchi, quali il rafforzamento dei posti blocco attorno alla capitale, la fornitura di cani anti-esplosivo alle forze di sicurezza, il raggruppamento delle diverse agenzie di intelligence e l’arrivo di un dirigibile munito di telecamere per controllare i movimenti sospetti», spiega il generale.
Dieci anni dopo l’attentato che alla base militare di Nassiriya costò la vita di 19 italiani, l’Iraq è nuovamente sotto attacco. La nuova ondata di violenza di cui parla il generale ha reso più nervosi perfino gli abitanti di Bagdad, rotti alle stragi peggiori. In qualsiasi
altra capitale del pianeta l’esplosione di 16 autobombe in una sola mattinata, come è accaduto due settimane fa, sarebbe stata registrata come un evento epocale. Non qui. Negli ultimi 12 mesi ci sono state una quarantina di esplosioni a catena, studiate apposta per renderle più mortifere e devastanti. Questa è la quotidianità di Bagdad, con attentati a tutte le ore del giorno. Nel regno di Al Qaeda la violenza è ubiqua e l’incubo della sua ferocia entra anche nelle case con le soap-opera trasmesse dalla tv irachena, con sceneggiature che mimano gli attentati, le torture e gli ammazzamenti della vita reale.
Bastano poche cifre per descrivere l’orrore in cui sono ripiombati gli iracheni per le loro lotte interne e roventi, quasi sempre a sfondo etnico o religioso. Dall’inizio del 2013, dice l’Onu, gli attacchi terroristici hanno già provocato 5.500 morti, e nel mese scorso il Paese ha conosciuto il più alto numero di vittime da cinque anni a questa parte, dai giorni bui del conflitto inter-religioso del 2008. Solo a ottobre sono state uccise 1100 persone, di cui 900 civili. Da gennaio sono esplose 500 autobombe, la metà delle quali nella capitale, mentre un centinaio di kamikaze imbottiti di tritolo si sono fatti saltare in aria in un uno stadio, un commissariato, una caserma, una scuola o dentro una moschea con i fedeli in preghiera.
Eppure, l’enorme mercato di Al Shourja, uno dei più bersagliati nelle ultime settimane, stamattina era straripante di gente. E’ bastato evitare l’ingresso dove tre auto accartocciate dal tritolo testimoniano dell’ultima ecatombe per ricavarne un’impressione che contraddice le cronache di guerra. Dopo aver oltrepassato banchi con grasse carpe boccheggianti appena pescate nel Tigri, con melograni maturi e con montagne di uva passa e di pistacchi, arriviamo nel piccolo ufficio di Saad Kassem, importatore di cardamomo, il quale vive perciò avvolto in un profumo che ubriaca. Dice Kassem: «Nessuno rivendica gli attentati, ma noi iracheni sappiamo bene chi sono i responsabili. Lo capiamo dai mezzi usati per uccidere. Quando c’è un kamikaze, il mandante è sempre Al Qaeda. Lo stesso discorso vale quando scoppia un’autobomba. Se invece gli ordigni esplodono sul ciglio di una strada, allora gli autori sono estremisti sciiti: quello è il loro copyright».
Quando gli raccontiamo delle misure adottate dal governo, Kassem scoppia a ridere: «E vogliono sconfiggere il terrorismo con un palloncino?». Usciti dal mercato, lo vediamo anche noi il dirigibile gonfio di elio: un puntino in lontananza sospeso in cielo, le cui telecamere dovrebbero scrutare una città di 8 milioni di abitanti. Come Kassem, molti iracheni sono convinti della futilità dei nuovi provvedimenti adottati, i quali rischiano soltanto di peggiorare la vita dei bagdadini già avvelenata dai check-point che puntellano le strade della capitale affogandola nel traffico.
Per Adnan Hussein, direttore del quotidiano Al Mada, la sola consolazione è che i protagonisti di questa guerra settaria
non abbiano fatto emuli tra la popolazione. O, almeno, non ancora. Questo anziano comunista sopravvissuto alle repressioni, alle guerre e al terrorismo spiega: «Ci sono due forme di terrorismo: quello prodotto dalla furia di Al Qaeda che organizza attentati spettacolari e uccisioni di massa; e quello non meno feroce delle cellule dell’estremismo sunnita e sciita, composte da ex
soldati del regime di Saddam o dai guerriglieri delle infinite milizie che conta l’Iraq. Già, perché da noi ogni partito politico possiede la sua banca, la sua tv, i suoi giornali e, soprattutto, la sua milizia armata. Lo Stato è ricco e la gente povera. Eppure, anche con il milione di uomini di cui dispongono, il nostro esercito e la nostra polizia non riescono a garantire la sicurezza».
Le autorità giurano di aver arrestato centinaia di persone e di averne uccise altrettante, ma nulla frena le critiche nei confronti di un governo accusato di non saper calmare la rabbia dei sunniti che si sentono discriminati dagli sciiti al potere e perseguitati dalle forze di sicurezza. Questa collera è la linfa che alimenta gli arruolamenti tra gli insorti. Per molti il principale colpevole del disastro iracheno è il premier sciita Nuri Kamal Al Maliki, un equilibrista che deve destreggiarsi tra gli americani che gli hanno consentito di arrivare al potere e gli iraniani che adesso lo sostengono. La settimana scorsa, dopo l’ennesima carneficina provocata da una serie di autobombe, Al Maliki s’è precipitato a Washington per chiedere aiuti. Ma stavolta non ha ottenuto nessun impegno né per la vendita di attrezzature militari né per altre forme di assistenza, ma s’è fatto rimbrottare dallo stesso presidente Obama, che l’ha esortato a mettere fine alle sue politiche settarie.
Taleb Bahar, presidente della tv Al Rasheed e professore all’Iraqi University, è convinto che la guerra settaria appartenga ormai al passato. L’Iraq, dice, è ostaggio dei suoi Paesi limitrofi: «Qui si combattono due conflitti: uno globale e uno regionale. E chi ci attacca vuole anche indebolirci economicamente, perché nessuno ha voglia di investire in un Paese così insicuro. Ai nostri vicini, siano essi siriani o iraniani, non interessa un Iraq pacificato. Per uscire da questo caos bisognerebbe anzitutto sciogliere le milizie e sostituire quegli incapaci e quei corrotti che gestiscono il Paese. Ma avremmo nuovamente bisogno di un intervento internazionale ». Quando gli chiediamo se gli sembra verosimile che ciò accada dopo le prossime elezioni legislative, previste per il 30 aprile 2014, il professore sorride. Poi alza gli occhi al cielo.
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