La fine dell’autonomia locale

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E tutto ciò con procedure emergenziali che in realtà sono ormai diventate un’ordinaria consuetudine. E’ da anni che a Roma il bilancio «preventivo» si approva quando l’esercizio sta per concludersi, quando cioè la spesa si è ormai esaurita. Ne consegue che le furibonde discussioni in aula consiliare siano diventate niente più che una sterile ginnastica (oratoria, se va bene).
E la capitale non è l’unica città a ritrovarsi in queste infelici condizioni, strozzata dai debiti e incatenata ad arcigne compatibilità (presunte e/o imposte). E non è l’unico Comune dove vanno in scena asprezze istituzionali e degenerazioni muscolari.
Del resto, se si è ingabbiati in un reticolo di vincoli e obblighi, patti di stabilità, leggi sovraordinate, indirizzi governativi, direttive europee, è del tutto evidente che il margine di decisione tende sempre più a restringersi, finendo per estinguere le residue prerogative su scala territoriale. Quel che si sta consumando in quest’ultimo scorcio è la fine dell’autonomia locale, di quel prezioso e vivace ingrediente della democrazia popolare e della dialettica istituzionale: in un paese a bassa identità nazionale come il nostro, dove da sempre le città e i territori generano movimentazioni e dinamismi. Un’anomalia, forse: ma pur sempre il precipitato forse più significativo della millenaria storia italiana.
Si sta insomma perseguendo quel che mesi fa raccomandava la banca d’affari J.P. Morgan, dall’alto della sua autorevolezza imperial-speculativa. Laddove esortava i paesi europei di cultura latina a manomettere i propri ordinamenti costituzionali, ritenuti eccessivamente permissivi, allo scopo di ridurre le prerogative dei poteri locali, considerati fastidiosamente ostili alle autocrazie finanziarie. E’ un processo distruttivo che, pezzo per pezzo, sta demolendo uno dei pilastri della democrazia italiana. I governi che si sono avvicendati in quest’ultimo ventennio, gli uni, gli altri, gli uni insieme agli altri, ne sono felicemente responsabili. Stanno inghiottendo una dopo l’altra le varie pertinenze locali attraverso limitazioni sempre più restrittive, che di fatto neutralizzano l’operatività territoriale. E a tutto ciò l’Associazione dei Comuni, che nel frattempo è diventata una confraternita di anime morte, si limita a imbastire queruli lai, se non cadaverici silenzi. I sindaci si ritrovano quindi ad amministrare come possono, chi più partecipe, chi più restio, chi perfino inconsapevole. A Roma il bilancio, a Genova i trasporti, a Firenze i beni culturali, a Messina i profughi, a Bologna le scuole private, a Napoli i rifiuti. Fanno e disfanno, si accalorano per poi rassegnarsi, s’indignano a volte ma quasi sempre rinunciano. Siamo rimasti atterriti a sentire quel sindaco sardo che raccontava come non avesse potuto bonificare proprio quell’area che poi il recente uragano ha devastato.
Potrebbero (dovrebbero) disobbedire, ribellarsi contro chi li soffoca, contro chi condanna città e territori al degrado e all’oblio. E invece finiscono quasi tutti per adeguarsi. Tagliano i servizi, lasciano deteriorare scuole, strade e giardini, svendono aziende e patrimoni, e a chiunque ponga un problema ripetono che non hanno i soldi per risolverlo. E se proprio c’è da rimettere a posto qualcosa, si rivolgono ai privati: e con il cappello in mano avviano desolanti negoziati: una palazzina per un asilo nido, un centro commerciale per un impianto sportivo, un albergo per un centro anziani.
Sono gli amministratori locali delle larghe intese e nelle larghe intese finiranno per annegare. Il loro destino sembra segnato: quello di diventare i funzionari liquidatori delle proprie amministrazioni, becchini di se stessi.


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