Il tramonto sul secolo di Sion
È destinato sicuramente a sollevare più di una polemica il nuovo libro di Enzo Traverso – La fine della modernità ebraica, Feltrinelli, pp. 190, euro 19. Traduzione di Diego Guzzi -, storico di talento, noto soprattutto per i suoi numerosi lavori sul Novecento, già docente presso l’«École des Hautes Études en Sciences Sociales» di Parigi e ora alla Cornell University di Ithaca, negli Stati Uniti. Va detto che il testo offre una pluralità di temi, di stimoli e di suggestioni, raccolti sotto un comune indice. Il taglio è quello della storia culturale, riflettendosi tuttavia nel giudizio che dà sul tempo presente e sui suoi protagonisti. Per essere affrontato occorrerebbe di più angoli di interpretazione, necessitando poi di una scomposizione e di successive ricomposizioni nei suoi diversi passaggi problematizzanti.
Al centro di quella che è chiamata La fine della modernità ebraica c’è il rapporto culturale, se non addirittura antropologico, tra quell’insieme di condizioni, storie, idee, nessi e significati che chiamiamo in senso lato «modernità» e la funzione storica svolta dall’ebraismo in Europa come nell’area atlantica. Il secondo, per Traverso, diventa un prisma della prima, essendone parte integrante, tanto più nei complessi processi di emancipazione che accompagnano l’evoluzione delle società occidentali. Si tratta non solo di un’identificazione intellettuale ma, così pare di cogliere dalle parole dell’autore, di una proiezione sul versante della rimodulazione dei rapporti di forza tra le diverse componenti delle collettività.
Il valore della diaspora
Nelle vicissitudini dell’ebraicità si riverberano aspetti significativi delle lotte per il riconoscimento sociale, che coinvolgono, più in generale, ceti e classi che fanno la loro comparsa sul proscenio civile con l’Ottocento. La «condizione ebraica», nella sua storicità (che poco o nulla ha a che fare con la dimensione religiosa o con una qualche connotazione strettamente ontologica), assume pertanto una fisionomia che va ben al di là dei soggetti che ne sono titolati, gli ebrei medesimi, per raccogliere significati, come anche valori, dal carattere universale. Il legame con l’eredità di Hannah Arendt è ripetutamente esplicitato in un testo che le dedica un intero capitolo. Tale condizione è l’indice del rapporto che intercorre tra cosmopolitismo (l’essere nel mondo) e anticonformismo (l’essere degli outsider), laddove la marginalità sociale, l’apolidia, la vulnerabilità e l’esperienza della mobilità diasporica invece che costituire dei disvalori fondano universi di significati nei quali anche molti non ebrei possono riconoscersi, concorrendo a dare forma alla democrazia dei moderni nelle sue forme più avanzate.
È l’esperienza del disagio esistenziale tradotta nella maturazione della coscienza di sé. Traverso dà ad essa forma per il tramite della numerosissima galleria di intellettuali ebrei, perlopiù figure di sradicati, che della consapevolezza della propria traiettoria esistenziale fecero derivare un lessico del tempo moderno acquisito e fruito poi da molti. La figura indice, in questo universo, è quella del paria, che traduce nella ribellione la sua «superfluità sociale», il suo essere posto ai margini della società degli integrati, di contro al parvenu, che invece adotta il mimetismo come strategia di ricomposizione della sua identità frantumata. Anche per questa ragione l’esperienza ebraica diventa un’importante fonte di riconoscimento, soprattutto nell’età dei totalitarismi, che si basano invece sulla distruzione sistematica della ricchezza e del pluralismo della sfera pubblica, attraverso la loro sostituzione con l’uniformità del sempre identico. Poiché l’intellettuale ebreo, che con quella sfera intrattiene da sempre un rapporto ambivalente, fondato sull’inclusione come anche sull’esclusione, da subito ne coglie la fragilità e, quindi, il bisogno di essere alimentata attraverso la partecipazione culturale e civile, quando anche essa sia filtrata dagli innumerevoli dispositivi di selezione e emarginazione che vi operano.
Derive conservatrici
Una spinta propulsiva, evidenza Traverso, che però ora si è consumata, non solo per ragioni proprie quanto e soprattutto per via del mutamento che ha attraversato le società a sviluppo avanzato, a partire dal secondo dopoguerra in poi. Perché l’ebraismo europeo ha conosciuto una traiettoria che l’ha portato dalla periferia delle società che ha abitato al loro centro? Per meglio dire, come e attraverso quali passi quella che era una congerie di pensatori e di individui impegnati nelle più diverse attività, già testimoni e critici del loro tempo è divenuta, nella seconda metà del Novecento, parte dei dispositivi materiali e simbolici di produzione del potere? Più che cercare delle risposte, invero assai problematiche, per Traverso è rilevante semmai registrare il transito che la politicizzazione dell’ebraismo ha comportato. Un transito segnato, per l’appunto, dall’essere il paradigma di una fertile alterità al divenire l’espressione di un emblema di conservazione. Una parabola che parte da Lev Trotsky e arriva a Henry Kissinger, tanto per dire. La fine della modernità ebraica assume così la forma peculiare (nonché la forza) di una svolta conservatrice. Segna il passaggio da una esperienza universalista ad una concezione di sé, e dello spazio pubblico, in chiave rigorosamente particolarista. In altre parole, dal cosmopolitismo all’eurocentrismo e all’atlantismo, come soprattutto l’ideologia neoconservatrice ha suggellato in tre decenni.
Quello che Traverso formula non è un giudizio sull’ebraismo come entità sociale e morale, in realtà una pluralità inestricabile di soggetti ed esperienze non riconducibili ad una sola matrice, bensì sulla sua autorappresentazione pubblica e sulla dimensione politica che, sostenitori e critici, gli hanno fatto rivestire. Soprattutto, ed è questo un punto che merita una particolare attenzione, nel momento in cui si è transitati dalla centralità delle lotte per la redistribuzione del potere e delle risorse a quella che l’autore chiama l’«ideologia civile dei diritti umani», dentro la quale l’intera parabola ebraica sembra ora definitivamente racchiudersi. Laddove questa integra e surroga qualsiasi discorso sull’ingiustizia sociale, letteralmente fagocitandolo dentro le dinamiche della vittima e del vittimismo, e della loro inerte apologia. Tema, quest’ultimo, che trova nel dibattito americano diversi addentellati, laddove si denuncia come esso riduca essenzialmente al rapporto binario tra retorica del risarcimento e inelaborazione del trauma l’intero orizzonte della politica.
All’interno di questa cornice l’autore inscrive riflessioni estremamente dure, che sembrano quasi accompagnare una sorta di congedo personale. I punti di attacco sono, oltre al nesso tra mutamento e dominio, essenzialmente tre: Israele e il sionismo, la Shoah e l’antisemitismo. Riguardo alla prima e al secondo Traverso registra un capovolgimento di ruoli. «Del mondo occidentale, l’ebraismo diasporico ha rappresentato la coscienza critica, mentre Israele sopravvive come un suo dispositivo di dominio».
Uno Stato con una vocazione «teologico-politica», che sovrappone il popolo alla religione istituendovi un nesso etnico. Posta tale premessa, il rifiuto è netto, alimentandosi dell’idea che Israele sia il perno, quanto meno culturale, non solo di una trasformazione di parte dell’ebraismo ma di un intero sistema di reificazione del processo di emancipazione universale. Non meno dure sono le parole sul rapporto con l’uso pubblico della memoria della Shoah, intesa come un esercizio che rischia l’annullamento di sé, in quanto «religione civile che costruisce un culto del passato dissociandolo dal presente». Ciò facendo, il suo potenziale di critica radicale delle ingiustizie rischia di scolorire dentro una narrazione spoliticizzata. Tale, sottolinea l’autore, perché incapace di identificare i legami collettivi, e i riflessi comuni, che quella terribile vicenda invece manifesta con il tempo corrente, azzerando qualsiasi strategia di riconoscimento e identificazione a favore di una compassione fine a sé e del ricorso inflattivo all’ingiunzione morale. Con il rischio, inoltre, che si alimenti l’equivoco di un particolarismo identitario di gruppo che si vorrebbe immodificabile.
Un segnavia oscurato
Accuse non nuove ma che nella scrittura di Traverso si fanno particolarmente taglienti. Poco plausibile, perché liquidatorio, è il ripetuto accostamento tra l’antisemitismo e l’islamofobia, intesi come due risentimenti strutturati da accomunarsi sotto la stessa radice. Per Traverso la consunzione del primo (cosa per nulla dimostrata) e l’evoluzione del secondo hanno prodotto un effetto di traslazione. Sono i musulmani a costituire oggi i destinatari di un’avversione tanto antica quanto persistente. Ma così dicendo, lo studioso pare sottovalutare la pervasività, la specificità e il camaleontismo dell’avversione contro gli ebrei, un pregiudizio per più aspetti imprescindibile. È un mero problema di condizioni, a giudicare dagli sbandamenti che si registrano in alcuni paesi della stessa Unione europea.
La lettura del volume solleva diverse considerazioni e anche ripetute obiezioni. Soprattutto, rinvia a quel complesso fenomeno che è indotto dall’ipertrofia della memoria individuale e di gruppo, di contro alla storia collettiva che è il segno dei tempi correnti. Viene da chiedersi se la mancanza di un pensiero critico sia qualcosa di ascrivibile anche al mutamento di status sociale di una parte del mondo ebraico o non piuttosto ad un pervicace spirito del tempo che stiamo vivendo. In realtà l’alterità ebraica, malgrado tutto, non sembra avere perso il suo carattere di segnavia della contemporaneità. Di essa ne delinea, infatti, gli aspetti contradditori, in una sorta di moto pendolare, qual è quello assunto da ciò che chiamiamo per l’appunto «modernità».
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