Il tramonto delle larghe intese

by Sergio Segio | 29 Novembre 2013 9:00

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 NON poteva essere sufficiente il voto di fiducia su un provvedimento — seppure fondamentale come la Legge di Stabilità — per ufficializzare un cambio di fase in questa legislatura. Una svolta che muta in parte gli obiettivi del governo guidato da Enrico Letta, ma soprattutto disegna gli schieramenti politici in modo del tutto nuovo. Unendo e schiacciando nel campo dell’opposizione i due partiti che si sono distinti per il populismo e la demagogia: i berlusconiani e i grillini.
E’ evidente che con la decadenza di Silvio Berlusconi e l’addio dei forzisti alla maggioranza, si sta costituendo una base parlamentare a sostegno dell’esecutivo affatto diversa. Non si tratta solo di una mera questione numerica. E’ il profilo della coalizione a mutare volto. Napolitano nel colloquio con i rappresentanti del Cavaliere lo ha riconosciuto e ha voluto fare una concessione ai suoi interlocutori a decadenza ormai avvenuta. E il voto che probabilmente ci sarà la prossima settimana alla Camera e al Senato rappresenterà il vero confine tra le larghe intese e la nuova alleanza. Una “fiducia politica” che permetterà di ridefinire i contorni della maggioranza. Un atto di cui ha bisogno anche Berlusconi che sta preparando una lunga campagna elettorale: al Cavaliere serve mettere in chiaro che lui non è più uno dei partner di governo. Prepara insomma una battaglia fatta in primo luogo di attacchi alla politica economica dell’esecutivo. E del tentativo di cancellare gli alfaniani dall’immaginario
collettivo degli elettori del centrodestra. In questi giorni lo ha già fatto e nei prossimi, in vista delle europee di maggio — il vero test per tutti i partiti — , dirà ancor di più agli italiani: chi vota Alfano, vota la sinistra. E il Nuovo centrodestra, al contrario, sarà costretto sempre più a prendere le distanze dall’ex padre putativo, proprio per cristallizzare una differenza. Presentarsi agli italiani con il segno della diversità rispetto alla stagione berlusconiana e anche con il tratto del ricambio generazionale. Avendo nello stesso tempo l’obbligo di far pesare sul governo ogni scelta e di dimostrare che non è nato un Nuovo centrosinistra.
Ma la discontinuità cui ha fatto riferimento il presidente della Repubblica riguarda naturalmente anche il Pd. Non solo nasce una inedita maggioranza, ma questo avviene alla vigilia delle primarie che eleggeranno il nuovo segretario. Nella Prima Repubblica, una circostanza del genere, avrebbe portato come minimo ad un rimpasto. Avrebbe rafforzato la presenza renziana, ridefinito i ruoli dell’ex Scelta Civica ormai spaccata in due e forse avrebbe risolto il problema di un ministro indebolito come Annamaria Cancellieri. Ma i tempi che Palazzo Chigi e il Quirinale stanno concordando per la “verifica parlamentare” sembrano dettati proprio per evitare passaggi traumatici. Chiedere e ottenere la fiducia prima delle primarie, significa escludere qualsiasi ritocco alla squadra lettiana e blindare il governo. Del resto il premier non intende modificare la struttura del suo esecutivo ad eccezione dei sottosegretari berlusconiani. E anche il futuro leader democratico non appare per ora intenzionato a creare le condizioni per arrivare ad una crisi in tempi brevi.
In passato i governi si sono presentati alle Camere per richiedere una nuova fiducia in caso di modifiche alla struttura della compagine o a causa di un voto parlamentare negativo. La soluzione adottata in questa occasione è l’ulteriore dimostrazione della straordinarietà della fase politica. E della difficoltà che l’hanno caratterizzata. Basti pensare che nel colloquio con la delegazione di Forza Italia, Napolitano non ha nascosto che gli ultimi tre mesi sono stati tra i «peggiori». E’ chiaro che dopo la condanna definitiva di Berlusconi nel processo Mediaset, l’impianto politico delle larghe intese è stato a dir poco scosso. E alcuni degli obiettivi alla base di quell’accordo ora rischiano di venir meno: a cominciare dalle riforme istituzionali. Le “grandi riforme” quelle che dovrebbero portare l’Italia ad esempio verso un sistema monocamerale, si allontanano. Sia perché la maggioranza al Senato consente margini di manovra molto meno ampi, sia perché cambiare la Costituzione senza una parte consistente dell’opinione pubblica che fa riferimento a Fi e a M5S sarebbe difficilmente accettabile dal Quirinale. Non a caso ieri Napolitano ha insistito sulla necessità di trovare un accordo su questo fronte. Ha spiegato di «comprendere le questioni umane» della scelta ma ha chiesto a Forza Italia di scindere l’addio al governo dalle possibili larghe intese per le riforme. Sapendo però che tutto è diventato più complicato. E che l’unica speranza è forse quella di mettere mano solo alla legge elettorale. Sebbene, anche su quella, le distanze ormai si sono acuite. Sarà per questo che il capo dello Stato ieri pomeriggio ha congedato i suoi ospiti con una battuta che ha raggelato un po’ tutti: «Non vorrei chiedere a questo Parlamento un altro voto per eleggere un nuovo presidente della Repubblica».

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