Il superfunzionario della Camera e il mandato che non scade mai

by Sergio Segio | 8 Novembre 2013 7:20

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ROMA — Il segretario generale della Camera dei Deputati Ugo Zampetti festeggerà il quattordicesimo anno di permanenza in carica con una buona notizia: l’offensiva grillina è stata respinta. Martedì il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio aveva battagliato nell’Ufficio di presidenza di Montecitorio per difendere un ordine del giorno che reintroduceva il limite di mandato di sette anni per quella nomina. Soli contro tutti, con l’unica eccezione del vicepresidente democratico Giachetti (renziano), l’avevano persino spuntata, ottenendo di poter far votare la loro proposta dall’assemblea. Ma il giorno dopo l’aula l’ha bocciata. Zampetti potrà così attendere serenamente la proroga del suo incarico oltre l’età pensionabile che raggiungerà alla fine del prossimo anno. Un prolungamento che gli era stato già promesso, ma che la reintroduzione di un tetto temporale al mandato da lui oggi ricoperto avrebbe certo reso poco opportuno.
La questione è delicatissima: chi riveste quella funzione è il capo assoluto dell’amministrazione della Camera, dove vige la cosiddetta «autodichia». Il che significa che nessuno, al di fuori degli stessi parlamentari, può sindacare su come vengono impiegate le risorse. Il segretario generale di Montecitorio è di conseguenza una delle figure più potenti della burocrazia pubblica. Fa parte di quella ristretta cerchia di funzionari da cui talvolta attinge anche la politica. Come dimostra la circostanza che fra i quindici segretari generali che si sono alternati nei 105 anni da quando esiste la carica, due sono diventati ministri: Antonio Maccanico e Gian Franco Ciaurro.
Ma c’è pure il fatto che questa faccenda va ben oltre gli aspetti puramente tecnici. Perché i contrasti sulla figura del segretario generale sono un capitolo, e piuttosto corposo, del duro scontro politico che fin dall’inizio della legislatura oppone su vari fronti i grillini a Laura Boldrini. Uno scontro sfociato a settembre in una clamorosa richiesta di dimissioni della presidente della Camera accusata di non essere super partes. E condito da episodi quali una multa di 3.795 euro appioppata dal collegio dei questori ai deputati del M5S colpevoli di aver protestato contro l’ipotesi di modifica dell’articolo 138 della Costituzione occupando per una notte la terrazza di Montecitorio. Finché non si è arrivati all’ultimo braccio di ferro. I grillini vogliono la testa del segretario generale che invece è in predicato per essere prorogato oltre l’età pensionabile.
Zampetti è in carica dall’11 novembre del 1999: si accinge a superare Aldo Rossi Merighi, che guidò la Camera dal 1930 al 1944, mentre guarda ancora da lontano l’inarrivabile Camillo Montalcini, al timone di Montecitorio dal 1907 al 1927. Fra gli ultimi che hanno avuto tale responsabilità, il suo è un caso unico. Da molti anni a questa parte sarebbe stato impossibile raggiungere livelli tali di longevità, causa l’introduzione di una regola secondo la quale il mandato poteva durare al massimo sette anni. La ragione era la stessa per cui anche analoghe funzioni apicali di alcune istituzioni (per esempio le authority) sono ben definite temporalmente, e ciò per evitare che tanto potere decisionale sia concentrato senza scadenza nelle medesime mani. Ma il 10 dicembre 2002, quando presidente della Camera era Pier Ferdinando Casini, la regola venne abolita. Trasformando così la carica a vita. Zampetti ha quindi potuto conservare il suo posto anche con Fausto Bertinotti, Gianfranco Fini, e ora Laura Boldrini: quinto presidente della Camera con cui collabora, essendo stato nominato al tempo di Luciano Violante. E non è l’unico record conseguito durante la sua gestione.
Caso ha voluto che gli sia capitato di sedere su quella poltrona mentre esplodevano nel Paese le polemiche sui costi della politica, e in anni durante i quali le spese degli organi costituzionali hanno toccato il massimo storico. Nel decennio compreso fra il 2001 e il 2010, prima che la crisi costringesse Camera e Senato a contenere almeno le richieste di dotazione al Tesoro, le uscite correnti di Montecitorio sono passate da 749,9 a 1.054,4 milioni di euro. Con una crescita del 41,3 per cento monetaria e del 17,7 per cento al netto dell’inflazione mentre il Prodotto interno procapite reale del Paese si riduceva di circa il 4 per cento.
La richiesta di cambiamento sostenuta invano dai grillini ha a che fare con questo? Certo è che il M5S ha trovato di fronte a sé un muro invalicabile. Quanto sia stato ruvido il confronto nell’Ufficio di presidenza lo dice un comunicato ufficiale pubblicato martedì sul sito della Camera dai tre questori, dai toni inconsueti. Lì si attribuisce una «reazione composta e nervosa» agli esponenti del Movimento Cinque Stelle, tacciati anche di «demagogia» a proposito delle scelte di bilancio. Il seguito alle prossime puntate.
Sergio Rizzo

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