IL DIRITTO DI CHI VOTA

by Sergio Segio | 13 Novembre 2013 8:53

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Concepita in una baita delle Dolomiti dai sedicenti «saggi» dell’allora Cdl, fin troppo lucidi a dispetto dei tanti bicchierini di grappa bevuti per l’occasione. Il loro unico obiettivo era sabotare la vittoria elettorale dell’Unione di Prodi e, in subordine, espropriare gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti. Missione compiuta.
Da allora, un ceto politico sempre più impresentabile ha rinnovato ciclicamente la promessa di correggere quell’«errore », e di farsi perdonare quell’orrore. Oggi dobbiamo prendere atto che questo Parlamento non è in grado, per cinismo e opportunismo, di onorare l’impegno. In Commissione Affari Costituzionali del Senato va in onda l’ennesima, penosa messinscena. Quello che importa è solo il tornaconto dei commedianti, e non l’interesse del pubblico. Ogni gruppo recita a soggetto, anche se di malavoglia, perché il 3 dicembre arriva la temuta sentenza della Consulta.

Il Pd, sostenuto da Sel e Scelta Civica, presenta la sua mozione sul doppio turno di coalizione. Naturalmente non passa. Vota no il Pdl, che ha una vaga preferenza per il proporzionale ma non ha una linea precisa, essendo ormai ridotto a un cumulo di macerie alla vigilia della danza macabra di sabato prossimo intorno al totem del Cavaliere oscuro. Vota no la Lega, che dopo averlo allegramente rottamato, intestandosi il Porcellum per la firma del suo eroico ministro Calderoli, ora ha addirittura la faccia tosta di proporre il ripristino del Mattarellum. Si astiene il Movimento 5 Stelle, che nell’entropia autoreferenziale delle nomenklature agonizzanti sguazza e spera sempre di prosperare.
Questo è lo scenario, mesto e decomposto, che si offre al popolo sovrano. Ogni partito insegue un suo «modello » per blindare, con la meccanica elettorale, i consensi che fatica a mantenere nella rappresentanza sociale. Il Porcellum è il padre di tutti i guai di questi ultimi anni: ha generato degrado istituzionale (come confermano gli scandali che attraversano l’intera Penisola) e disaffezione civile (come dimostrano i successi del primo vero partito italiano, quello degli astensionisti). Dopo aver concepito un “Frankenstein” del genere, non c’è da inventare chissà quale altro mostro. Basta scegliere tra i sistemi che fanno funzionare da quasi un secolo le grandi democrazie europee. Invece no. Gli azzeccagarbugli tricolori le provano tutte, ibridando il «tedesco», il «francese», da ultimo lo «svizzero» e l’«Ispanico».
L’ultimo «esperimento», di cui si sente parlare nei corridoi tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, sarebbe un nuovo pastrocchio che mantiene le liste bloccate (anche se più ristrette e con una rappresentanza di genere vincolata), e introduce per la Camera una soglia del 40% per accedere al premio di maggioranza di 340 seggi. Non l’eutanasia del Porcellum, ma addirittura la sua rinascita. Un Super Porcellum che, nella crisi irreversibile del sistema e nel declino inarrestabile dei grandi partiti di massa, produrrebbe l’unico effetto di non far vincere nessuno. E dunque «costituzionalizzerebbe » di fatto la formula delle Larghe Intese, alla quale un apparato politico destrutturato e tendenzialmente consociativo come il nostro tende ormai quasi per inerzia.
Oltre che l’esproprio definitivo del diritto di scelta dei cittadini, questa sarebbe la morte certa del bipolarismo. Cioè dell’unico «valore» creato, indirettamente e suo malgrado, dal Ventennio berlusconiano. Per questo, a prescindere da ogni valutazione specifica sul modello del «sindaco d’Italia» caro al candidato segretario del Pd, non si può dare torto a Matteo Renzi, che sfida il suo e tutti i partiti a rinunciare ai miserabili interessi di bottega e ai mediocri compromessi al ribasso, e a puntare invece su un accordo di profilo «alto», che garantisca insieme la governabilità e l’alternanza.
Non c’è principio più giusto che questo: chi vota deve sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e chi governerà il Paese. Deve poter decidere in piena libertà chi può rappresentarlo al meglio sul territorio, e non dentro le stanze chiuse delle segreterie. E deve poter sperare che se il suo schieramento perde le elezioni una volta, può sicuramente vincerle la prossima. Senza bisogno di ricorrere a Grosse Coalizioni tanto forzose quanto improprie, che dovrebbero governare i grandi cambiamenti e invece vivacchiano di piccoli accomodamenti.
Ma questa speranza, ancora una volta, sembra destinata a naufragare. Con buona pace dei cittadini, che dai referendum di Mario Segni nei primi anni Novanta aspettano ancora una legge elettorale chiara e semplice, che consenta loro di scegliere un partito e una coalizione, un candidato premier e un deputato o un senatore da mandare in propria vece alla Camera o al Senato. E con tanti saluti a Giorgio Napolitano, che frusta i partiti dall’inizio del suo mandato al Quirinale, e che al superamento definitivo del Porcellum ha legato la sua stessa disponibilità alla rielezione. Per questo è ora di dire basta. Servono un sussulto di dignità e un’assunzione di responsabilità. Per curare la nostra democrazia ferita.
Il Pd ha di fronte due soluzioni. La prima, minimale, è il ritorno al Mattarellum. C’è il problema giuridico di come assicurare la «riviviscenza» di una legge pre-esistente? Lo si risolva. Nella patria del diritto questo è un ostacolo superabile. La seconda, più ambiziosa, è il rilancio del maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia e come lo stesso Pd aveva già deciso nel 2011. C’è il problema tecnico di come introdurlo in un regime che non prevede il semi-presidenzialismo? Lo si affronti. Nella prospettiva di un’Italia «de-berlusconizzata» anche questo non è un tabù inviolabile.
Si tratta di scegliere. E di farlo subito, con convinzione. Senza retropensieri «gran-coalizionisti» o riserve mentali correntizie. Un pregiudiziale «cui prodest» di una riforma elettorale, oggi, è solo l’ultimo sintomo, esiziale, del collasso etico-politico di un’intera classe dirigente, che vuole tenersi la «porcata» di Calderoli perché la considera la sua «polizza vita». Basterebbe riformarla, e un minuto dopo cadrebbero tutti gli alibi per non mandare a casa l’intero Parlamento e non tornare subito alle urne. Anche per questo la riforma va fatta, e subito. L’Italia, che non è la Germania, ha un disperato bisogno di tornare alla «normalità» bipolare. È vero che, in un Paese in crisi economica, non si vive di legge elettorale. Ma è altrettanto vero che, in un Paese in bancarotta morale, di Porcellum si può anche morire.

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