by Sergio Segio | 17 Novembre 2013 8:50
Il vicepresidente del consiglio e cinque ministri berlusconiani avrebbero potuto affettuosamente unirsi all’applauso della sala per sottolineare l’attacco alla legge di stabilità, la difesa del Porcellum, l’esempio invidiabile dell’India e dell’Albania come modelli di un mercato del lavoro che offre salari da fame e niente tasse per le imprese. Avrebbero potuto celebrare con una standing ovation l’accusa forsennata ai magistrati assassini, condividere l’idea che «la libertà del nostro paese dipende solo da noi, e semmai dovessero andare al governo Pd e grillini, per noi resterebbe solo l’esilio». Il lungo comizio a braccio di Berlusconi sarebbe stata musica anche per le loro allenate orecchie.
Le circostanze li hanno invece lasciati fuori da quella platea e tuttavia molti indizi lasciano supporre che potrebbero marciare oggi divisi per colpire uniti domani. E’ tutto in questo invito a ritrovarsi il cuore del messaggio rivolto ieri da Silvio Berlusconi, in un canto del cigno, alla mesta assemblea che ha sancito la divisione del Pdl. «Non fate dichiarazioni contro il nuovo gruppo perché poi saremo tutti nel centrodestra», ha spiegato il Cavaliere alla platea. A dimostrazione che nonostante il tramonto della sua premiership, lui tenta disperatamente di proporsi come l’unico federatore della vasta area elettorale che per vent’anni gli ha assicurato la guida del paese. Per questo non è poi così strano se questo ritorno al passato di Forza Italia (simile piuttosto a un funerale), al contrario di quanto sostengono i cantori delle larghe intese, potrebbe tradursi in un indebolimento del governo Letta.
Per una sorta di eterogenesi dei fini, aver disconosciuto un risultato elettorale che chiedeva un cambiamento e aver imposto la camicia di forza di un’alleanza con la destra, sta producendo una progressiva frantumazione del quadro politico, una balcanizzazione parlamentare (si spacca anche il partito di Monti), preludio di forti turbolenze. Basta alzare lo sguardo per vedere predisporsi sulla linea del fronte i cannoni di grosso calibro (Berlusconi, Grillo e Renzi). Si potranno già esercitare su una road-map che prevede una mozione di sfiducia alla ministra Cancellieri, il voto sulla decadenza, e le elezioni primarie del Pd. Oltretutto, se il vicepresidente Alfano vorrà evitare di perdere il “quid” appena conquistato, dovrà dimostrarsi, nell’azione di governo, più berlusconiano di Berlusconi. Così come sarà sempre più complicato convincere gli elettori del partito democratico che è meglio stare in un governo con i “diversamente berlusconiani”, che è preferibile governare con i “responsabili” di Formigoni, piuttosto che andare alle elezioni per vincerle con Renzi.
I ragionamenti sulla tenuta del governo, sul fatto che perdendo Berlusconi la maggioranza acquista maggiore coesione politica, una sorta di seconda tappa dopo il voto di fiducia del 2 ottobre, hanno poi il piccolo difetto di sottovalutare la differenza che distingue la scissione del Pdl dai precedenti abbandoni (Casini e Fini). Questa volta la rottura avviene nel cuore del berlusconismo per una lotta che ha molto a che vedere con la spartizione dell’eredità politica del centrodestra e molto poco con una differenza ideologica e culturale. «Tra noi non ci sono differenze di valori o di programmi», ha rassicurato Berlusconi. A conferma, basterebbe ricordare che le leggi ad personam sulla giustizia, solo per fare un esempio, portano i nomi del lodo Schifani e del lodo Alfano. E le elezioni, pur scongiurate da un patto di ferro, potrebbero essere più vicine.
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