IL BLUFF SU BANKITALIA

by Sergio Segio | 27 Novembre 2013 9:04

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Forte del rapporto dei tre saggi (Franco Gallo, Lucas Papademos e Andrea Sironi), incaricati di offrire una valutazione del capitale sociale dell’istituto, l’esecutivo intende varare un decreto già al Consiglio dei ministri di oggi. Il decreto di rivalutazione delle quote avrebbe addirittura già visto la luce giovedì scorso, se non fosse per la richiesta di un parere legale della Banca centrale europea. Questa brusca accelerazione imposta da un governo che non si caratterizza certo per la sua capacità di prendere decisioni in tempi rapidi, si spiega con la necessità di trovare coperture per l’abolizione della seconda rata dell’Imu. E con la richiesta del presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, di procedere “a velocità siderale” nell’approvare il provvedimento. Ma gli assetti proprietari di via Nazionale sono una questione delicata, che va affrontata e risolta una volta per tutte, senza pensare alle esigenze di cassa immediate del Tesoro e alla cosmesi dei ratio patrimoniali delle banche. Vediamo innanzitutto di cosa si tratta.
Le banche italiane che un tempo facevano parte del settore pubblico allargato detengono il 94,33 per cento del capitale di Banca d’Italia, mentre la quota residua è proprietà di Inps e Inail. Per quanto le quote non abbiano mai consentito alle banche di incidere sull’attività della Banca d’Italia, conferiscono ai titolari dei poteri nella nomina dei vertici di via Nazionale. In passato, per togliersi d’imbarazzo, le banche avevano delegato questa decisione al governatore, col risultato di renderlo inamovibile, come documentato dall’interminabile uscita di scena di Antonio Fazio. Inoltre le quote sono molto concentrate: due sole banche, Banca Intesa e Unicredit, ne detengono più del 50%, il che alimenta il sospetto che possano condizionare le scelte di via Nazionale. Importante perciò avere una struttura proprietaria meno concentrata, in cui i singoli enti non abbiano più dell’1-2 per cento del capitale sociale. Di qui il problema affrontato dalla commissione dei saggi: a che prezzo si può organizzare il trasferimento delle quote da un ente a un altro? Un problema complesso perché non è chiaro come si possa valutare una banca centrale, il cui valore è solo nozionale.
Il capitale nominale della Banca d’Italia è oggi fissato al livello simbolico di 156mila euro (300 milioni di lire), stabilito all’epoca della Legge Bancaria del 1936. Questo capitale è suddiviso in 300.000 quote del valore di 0,52 euro (mille lire) ciascuna. Tenendo conto dell’inflazione, oggi il capitale varrebbe circa 1,3 miliardi. Una valutazione vicina a un miliardo la si ottiene anche a partire dai rendimenti che le banche ottengono da queste partecipazioni, stimando il valore delle quote come quello di un’obbligazione a basso rischio che offre rendimenti perpetui. Le banche che detengono le quote hanno iscritto nei loro bilanci cifre che implicano valutazioni molto difformi tra di loro del capitale sociale di via Nazionale. Banca Intesa le valuta a 5849 l’una (quindi il capitale totale 2 miliardi e mezzo), Unicredit a 4288 euro (1,3 miliardi). Quasi tutte le banche hanno recentemente rivisto all’insù i valori iscritti a bilancio per gonfiare il loro patrimonio. Ad esempio Banca Carige le ha portate da 41 euro a 73764 euro l’una (una rivalutazione del 180.000 per cento!), il che implica una valutazione
del capitale sociale di via Nazionale attorno ai 22 miliardi, più o meno il valore delle riserve aggiuntive accumulate da Banca d’Italia in tutto questo periodo. In altre parole, Carige si è formalmente attribuita anche gli utili derivanti dall’emissione di moneta, il cosiddetto signoraggio, che vengono
destinati in gran parte all’incremento delle riserve. Ma questi utili non dovrebbero mai finire ad azionisti privati, essendo frutto di una funzione pubblica, svolta da una banca centrale in condizioni di monopolio per legge dello Stato.
La Commissione di esperti ha valutato il capitale in una forbice compresa fra 5 e 7,5 miliardi e mezzo. Seppur esponenti della vecchia maggioranza chiedessero una valutazione ancora più generosa delle quote (Renato Brunetta aveva parlato addirittura di 30 miliardi, non si capisce su quale base), una cospicua rivalutazione delle quote fa molto comodo al governo. Gli incrementi patrimoniali realizzati dalle banche nel momento in cui rivalutano le quote vengono, infatti, tassati al 16 per cento. Con la valutazione delle quote a 7,5 miliardi, la tassazione dei capital gain porterebbe circa un miliardo alle casse dello Stato, pressappoco la somma che manca per coprire la cancellazione della seconda rata dell’Imu. Al tempo stesso, le banche ved rebbero rafforzarsi notevolmente la loro posizione patrimoniale, alla vigilia di stress test che si annunciano più impegnativi che in passato, senza colpo ferire. Il capitale liquido non è liquido, ma le banche chiedono che le quote di Banca d’Italia siano computabili nel valutare i requisiti di capitale imposti dalle nuove autorità di supervisione europee. Si è così creata una specie di associazione a delinquere nel cercare di chiudere nel più breve tempo possibile la partita.
Il problema è che oltre alla rivalutazione, ci sono tante altre questioni aperte. Innanzitutto bisogna decidere come avverrà il trasferimento delle quote, oggi considerate incedibili. Poi bisogna stabilire quali dividendi verranno garantiti in futuro. Lo statuto di Banca d’Italia è molto ambiguo a riguardo perché definisce tetti ai dividendi in rapporto alle riserve di via Nazionale oppure come una quota fissa (10%) del capitale sociale. Nel primo caso si stabilisce, come si ricordava, un principio molto pericoloso. Nel secondo caso, la forte rivalutazione delle quote prelude a dividendi molto più alti in futuro, fino a 750 milioni all’anno contro i 50 pagati in media negli ultimi 15 anni e i 70 dell’ultimo esercizio. Come dire che nel giro di soli due anni le entrate una tantum della tassa sui capital gain verrebbero restituite alle banche sotto forma di dividendi più alti. E poi c’è sempre la possibilità che una quota del capitale sociale di via Nazionale venga riacquistata da enti pubblici, come previsto dallo statuto di Banca d’Italia e come avviene nella maggioranza dei Paesi dell’euro. Se le quote vengono valutate 50 volte più di adesso, l’esborso sarà 50 volte più alto di quello che avrebbe potuto avere luogo senza il provvedimento. Scelte fatte a metà, nella collusione fra un governo a disperata caccia di risorse e banche interessate in qualsiasi modo ad aumentare il proprio patrimonio, rischiano perciò di lasciare un’eredità pesantissima ai contribuenti futuri.
Se si vuole davvero riformare gli assetti proprietari di via Nazionale meglio affrontare il problema lontano dalle mischie sull’Imu e risolverlo una volta per tutte, senza lasciare strascichi di cose da fare dopo. Il governo Letta è sin qui sopravvissuto alla decadenza di Silvio Berlusconi sostenendo che tale questione era estranea all’azione di questo governo. Bene che sancisca lo stesso principio nell’affrontare la vicenda delle quote di Banca d’Italia. È un problema che non ha nulla a che vedere con la legge di stabilità, la tassazione degli immobili e la sopravvivenza di questo governo. Il valore vero di una banca centrale, dopotutto, risiede nella sua credibilità e indipendenza dal potere politico.

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IL BLUFF SU BANKITALIA

by Sergio Segio | 27 Novembre 2013 9:04

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Forte del rapporto dei tre saggi (Franco Gallo, Lucas Papademos e Andrea Sironi), incaricati di offrire una valutazione del capitale sociale dell’istituto, l’esecutivo intende varare un decreto già al Consiglio dei ministri di oggi. Il decreto di rivalutazione delle quote avrebbe addirittura già visto la luce giovedì scorso, se non fosse per la richiesta di un parere legale della Banca centrale europea. Questa brusca accelerazione imposta da un governo che non si caratterizza certo per la sua capacità di prendere decisioni in tempi rapidi, si spiega con la necessità di trovare coperture per l’abolizione della seconda rata dell’Imu. E con la richiesta del presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, di procedere “a velocità siderale” nell’approvare il provvedimento. Ma gli assetti proprietari di via Nazionale sono una questione delicata, che va affrontata e risolta una volta per tutte, senza pensare alle esigenze di cassa immediate del Tesoro e alla cosmesi dei ratio patrimoniali delle banche. Vediamo innanzitutto di cosa si tratta.
Le banche italiane che un tempo facevano parte del settore pubblico allargato detengono il 94,33 per cento del capitale di Banca d’Italia, mentre la quota residua è proprietà di Inps e Inail. Per quanto le quote non abbiano mai consentito alle banche di incidere sull’attività della Banca d’Italia, conferiscono ai titolari dei poteri nella nomina dei vertici di via Nazionale. In passato, per togliersi d’imbarazzo, le banche avevano delegato questa decisione al governatore, col risultato di renderlo inamovibile, come documentato dall’interminabile uscita di scena di Antonio Fazio. Inoltre le quote sono molto concentrate: due sole banche, Banca Intesa e Unicredit, ne detengono più del 50%, il che alimenta il sospetto che possano condizionare le scelte di via Nazionale. Importante perciò avere una struttura proprietaria meno concentrata, in cui i singoli enti non abbiano più dell’1-2 per cento del capitale sociale. Di qui il problema affrontato dalla commissione dei saggi: a che prezzo si può organizzare il trasferimento delle quote da un ente a un altro? Un problema complesso perché non è chiaro come si possa valutare una banca centrale, il cui valore è solo nozionale.
Il capitale nominale della Banca d’Italia è oggi fissato al livello simbolico di 156mila euro (300 milioni di lire), stabilito all’epoca della Legge Bancaria del 1936. Questo capitale è suddiviso in 300.000 quote del valore di 0,52 euro (mille lire) ciascuna. Tenendo conto dell’inflazione, oggi il capitale varrebbe circa 1,3 miliardi. Una valutazione vicina a un miliardo la si ottiene anche a partire dai rendimenti che le banche ottengono da queste partecipazioni, stimando il valore delle quote come quello di un’obbligazione a basso rischio che offre rendimenti perpetui. Le banche che detengono le quote hanno iscritto nei loro bilanci cifre che implicano valutazioni molto difformi tra di loro del capitale sociale di via Nazionale. Banca Intesa le valuta a 5849 l’una (quindi il capitale totale 2 miliardi e mezzo), Unicredit a 4288 euro (1,3 miliardi). Quasi tutte le banche hanno recentemente rivisto all’insù i valori iscritti a bilancio per gonfiare il loro patrimonio. Ad esempio Banca Carige le ha portate da 41 euro a 73764 euro l’una (una rivalutazione del 180.000 per cento!), il che implica una valutazione
del capitale sociale di via Nazionale attorno ai 22 miliardi, più o meno il valore delle riserve aggiuntive accumulate da Banca d’Italia in tutto questo periodo. In altre parole, Carige si è formalmente attribuita anche gli utili derivanti dall’emissione di moneta, il cosiddetto signoraggio, che vengono
destinati in gran parte all’incremento delle riserve. Ma questi utili non dovrebbero mai finire ad azionisti privati, essendo frutto di una funzione pubblica, svolta da una banca centrale in condizioni di monopolio per legge dello Stato.
La Commissione di esperti ha valutato il capitale in una forbice compresa fra 5 e 7,5 miliardi e mezzo. Seppur esponenti della vecchia maggioranza chiedessero una valutazione ancora più generosa delle quote (Renato Brunetta aveva parlato addirittura di 30 miliardi, non si capisce su quale base), una cospicua rivalutazione delle quote fa molto comodo al governo. Gli incrementi patrimoniali realizzati dalle banche nel momento in cui rivalutano le quote vengono, infatti, tassati al 16 per cento. Con la valutazione delle quote a 7,5 miliardi, la tassazione dei capital gain porterebbe circa un miliardo alle casse dello Stato, pressappoco la somma che manca per coprire la cancellazione della seconda rata dell’Imu. Al tempo stesso, le banche ved rebbero rafforzarsi notevolmente la loro posizione patrimoniale, alla vigilia di stress test che si annunciano più impegnativi che in passato, senza colpo ferire. Il capitale liquido non è liquido, ma le banche chiedono che le quote di Banca d’Italia siano computabili nel valutare i requisiti di capitale imposti dalle nuove autorità di supervisione europee. Si è così creata una specie di associazione a delinquere nel cercare di chiudere nel più breve tempo possibile la partita.
Il problema è che oltre alla rivalutazione, ci sono tante altre questioni aperte. Innanzitutto bisogna decidere come avverrà il trasferimento delle quote, oggi considerate incedibili. Poi bisogna stabilire quali dividendi verranno garantiti in futuro. Lo statuto di Banca d’Italia è molto ambiguo a riguardo perché definisce tetti ai dividendi in rapporto alle riserve di via Nazionale oppure come una quota fissa (10%) del capitale sociale. Nel primo caso si stabilisce, come si ricordava, un principio molto pericoloso. Nel secondo caso, la forte rivalutazione delle quote prelude a dividendi molto più alti in futuro, fino a 750 milioni all’anno contro i 50 pagati in media negli ultimi 15 anni e i 70 dell’ultimo esercizio. Come dire che nel giro di soli due anni le entrate una tantum della tassa sui capital gain verrebbero restituite alle banche sotto forma di dividendi più alti. E poi c’è sempre la possibilità che una quota del capitale sociale di via Nazionale venga riacquistata da enti pubblici, come previsto dallo statuto di Banca d’Italia e come avviene nella maggioranza dei Paesi dell’euro. Se le quote vengono valutate 50 volte più di adesso, l’esborso sarà 50 volte più alto di quello che avrebbe potuto avere luogo senza il provvedimento. Scelte fatte a metà, nella collusione fra un governo a disperata caccia di risorse e banche interessate in qualsiasi modo ad aumentare il proprio patrimonio, rischiano perciò di lasciare un’eredità pesantissima ai contribuenti futuri.
Se si vuole davvero riformare gli assetti proprietari di via Nazionale meglio affrontare il problema lontano dalle mischie sull’Imu e risolverlo una volta per tutte, senza lasciare strascichi di cose da fare dopo. Il governo Letta è sin qui sopravvissuto alla decadenza di Silvio Berlusconi sostenendo che tale questione era estranea all’azione di questo governo. Bene che sancisca lo stesso principio nell’affrontare la vicenda delle quote di Banca d’Italia. È un problema che non ha nulla a che vedere con la legge di stabilità, la tassazione degli immobili e la sopravvivenza di questo governo. Il valore vero di una banca centrale, dopotutto, risiede nella sua credibilità e indipendenza dal potere politico.

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