I padroni del mondo

by Sergio Segio | 14 Novembre 2013 14:03

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Megabanche con i piedi d’argilla

Una banca è un posto dove ti prestano un ombrello quando c’è il sole e te lo chiedono indietro quando comincia a piovere.
Robert Frost

Il capitalismo sull’orlo dell’implosione
Metà settembre 2008. Il mondo è sul ciglio dell’abisso. Scoppia la grande crisi globale, la peggiore degli ultimi ottant’anni. Ne parliamo ancora perché l’apocalisse potrebbe ripetersi. Negli stessi identici termini. Un altro ?cigno nero? come viene definito, secondo la teoria dell’epistemologo Nassim Nicholas Taleb, un avvenimento raro e imprevedibile che sconvolge l’ordine delle cose. Quasi nulla è cambiato rispetto a quei terribili giorni. Anzi, lo scenario è peggiorato. Mancò un soffio. Per l’esattezza tre ore. All’epoca nessuno aveva strumenti per capire, tutto si svolse in modo convulso, ma oggi sappiamo. Stati Uniti, Europa, i Bric (Brasile, Russia, India, Cina), l’intero blocco delle economie evolute, da Tokyo a Londra, da New York a Singapore, fu a centottanta minuti di orologio dall’implosione. Poi tutto sarebbe scoppiato, deflagrato, lasciando solo macerie e devastazione. Come in una catastrofica terza guerra mondiale.

La grande crisi andava in scena sugli schermi di oltre 300.000 terminali Bloomberg nei cinque continenti. Gli sherpa al servizio dell’oligarchia che guida il mondo – multinazionali, banche, hedge fund, speculatori – stavano per cambiare il destino di miliardi di persone. I prezzi crollavano, il tremendo virus ?tossico? di non liquidità e insolvibilità che aveva attaccato le banche mondiali stava per esplodere.

Accadde il 18 settembre 2008, l’evento che solo poche altre volte nella storia economica ebbe un simile impatto: una eccezionale fuga di capitali dai depositi di banche americane (bank run) per un totale di 5,5 trilioni di dollari. Lehman Brothers era fallita quattro giorni prima, Wall Street aveva perso -30 per cento in poche settimane, e ora l’equivalente di un terzo del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti stava evaporando dai depositi bancari. Niente code agli sportelli, tutto elettronico. Ancora tre ore a quel ritmo di fuga di capitali, testimonio in seguito un deputato al Congresso, ?e il capitalismo come lo conosciamo sarebbe finito?.

L’apocalisse fu evitata perche il governo presentò la prima bozza di un piano di salvataggio delle banche. Fu sufficiente a fermare in extremis la fuga dagli sportelli. In quei giorni di settembre a Washington circolavano voci assurde, l’atmosfera in cui viveva la superpotenza sull’orlo di una Grande depressione era da stato di guerra. Alcuni deputati (tutti repubblicani) volevano la legge marziale, un provvedimento mai approvato in tempi moderni che prevede la sospensione dei diritti civili e la pena di morte. Il capitalismo crollava e lo scenario di una presa di potere da parte dei generali del Pentagono direttamente sotto il controllo della Casa bianca diventava reale. Come in un film di Hollywood.

La riunione segreta dei banchieri
Non molto tempo dopo, il 13 ottobre 2008, a Washington fu convocato un vertice politico-bancario di emergenza. L’obiettivo non era cambiato: evitare il collasso dell’economia americana. Lo scenario rimaneva da stato di belligeranza: Borsa in caduta libera, disoccupazione in rapida crescita, quattro milioni di persone senza lavoro in due mesi, il Pil globale in crollo per la prima volta dai tempi della Seconda guerra mondiale, dopo decenni di sviluppo. Fu in tale clima che un piccolo drappello di bankster, i capi delle maggiori banche degli Stati Uniti (tutti azionisti ?di peso? della banca centrale, la Federal Reserve), furono ?comandati? dal segretario al Tesoro Henry ?Hank? Paulson (ex Ceo di Goldman Sachs) per un vertice top secret fuori dai radar dei media. Appuntamento alle nove del mattino, al 1500 di Pennsylvania Avenue, sede del dipartimento del Tesoro, a poche decine di metri dalla Casa bianca.

Visi tirati per le notti insonni, abiti blu o grigioscuri d’ordinanza, nove tra i bankster piu influenti del capitalismo occidentale, i loro istituti di credito sull’orlo del fallimento, entrarono alla spicciolata nel palazzo dove si sarebbero decisi i destini dell’economia mondiale. L’architettura neoclassica dell’edificio, la grande statua di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro Usa nel 1789, conferivano solennità al momento.

I boss di Bank of America, Bank of New York Mellon, Citigroup, Goldman Sachs, JPMorgan Chase, Merrill Lynch, Morgan Stanley, State Street e Wells Fargo furono accolti dall’ex collega banchiere Paulson, ora ministro nell’amministrazione di George W. Bush, dal chairman della Federal Reserve, Ben Bernanke, e dal potente capo della Federal Reserve di New York, Tim Geithner (che qualche mese dopo, con la vittoria di Barack Obama alle presidenziali del 4 novembre 2008, avrebbe preso il posto di Paulson al vertice del dipartimento al Tesoro).
La tensione era palpabile, le notizie dai mercati finanziari in continuo peggioramento. Una giornata capitale, tanto quanto il 17 settembre 2001, quando Wall Street riaprì i battenti dopo molti giorni di chiusura in seguito all’attacco alle due Torri.

Anche il bank run e la crisi dei mercati erano una ?questione di sicurezza nazionale?. Cosi la considerava il presidente Bush. In netta contraddizione con i principi del libero mercato a cui, da repubblicano, si era sempre, in modo rozzo, appellato. La Casa bianca, con quel regista ex banchiere al Tesoro, stava per dare il via a un intervento storico dello Stato per salvare dalla morte il sistema bancario.

L’America in ginocchio, come sotto un tremendo e inatteso attacco militare da parte di un nemico feroce, preparava la propria difesa tramite un maxipiano di salvataggio delle banche. Con i soldi dei contribuenti. Avrebbe potuto farlo un qualsiasi governo statalista o socialista.

«Ecco, firmate»
Lavorando giorno e notte, gli avvocati del Tesoro avevano preparato il piano di bailout che i nove banchieri avrebbero dovuto sottoscrivere. Hank Paulson fu molto spiccio, perfino brusco. Andare subito al sodo era d’obbligo, fuori la guerra infuriava. A ciascuno di loro fu consegnato un solo foglio, poche righe, zero allegati e niente note. C’era scritto che le loro rispettive banche accettavano la vendita delle proprie azioni al governo degli Stati Uniti. Il ministro, senza perdere tempo, disse: ?Ecco, firmate?.

E i potenti Ceo obbedirono. Pochi secondi, e il golpe soft era compiuto, le maggiori banche statunitensi erano salve. Il governo di Washington entrava in forza nel capitale di giganti bancari sull’orlo del fallimento. Il sistema non sarebbe crollato, il capitalismo aveva vinto un’altra battaglia, anche se con l’infamia, utilizzando il denaro pubblico degli ignari contribuenti. Una dozzina di persone, nove banchieri, più i vertici di Fed e Tesoro, quel 13 ottobre 2008 avevano riscritto la storia economica.

Il patto prevedeva l’acquisto di azioni privilegiate da parte del governo. Cioè, in pratica, il Tesoro statunitense prestava denaro alle banche a un tasso d’interesse annuale iniziale del 5 per cento (molto piu basso rispetto a quello di mercato, anche se era previsto che salisse al 9 per cento dopo cinque anni) per un periodo di tempo ?perpetuo?. Le banche non avrebbero dovuto restituire il prestito, se non avessero voluto.

Fu quindi un ex banchiere di Goldman Sachs a generare il mostro che tuttora spadroneggia e ci ricatta. In un sussulto scaturito dall’emergenza e dall’istinto di sopravvivenza, subito prima dell’ineluttabile implosione del sistema, Paulson, la massima autorità politica e monetaria degli Stati Uniti, sotto la regia della Federal Reserve, con un atto senza precedenti decise di salvare il capitalismo americano e mondiale correndo in soccorso a un super network di banche che avrebbero dovuto quasi tutte portare i libri in tribunale. Erano nate le ?Tbtf? (Too Big To Fail), un Frankenstein finanziario che continua a fare danni, diretti e collaterali, di proporzioni colossali, di cui tutti paghiamo le conseguenze.

Dal settembre del 2008, quindi, gli istituti di credito, anche se mal gestiti, indebitati e zeppi di titoli tossici, sono diventati ?troppo grandi per fallire?. Da oltre cinque anni, l’abnorme creatura e un monumento all’inefficienza, al rischio, all’azzardo morale, all’antieconomicita, all’asservimento ai poteri forti e – diciamolo – al sonno della ragione. Un moloch che sbeffeggia la pattuglia di estremisti fautori del libero mercato per i quali sarebbe stato meglio, in quei giorni da apocalisse, far collassare il sistema bancario americano, lasciando fallire gli istituti ormai compromessi. Darwinismo in economia, anche a costo di alterare per sempre lo scenario e i rapporti di forza. Si poteva azzerare e ripartire. Invece Tbtf e oggi il vero strumento grazie al quale i bankster prosperano e si arricchiscono impuniti, mentre la gente comune soffre. Un totem medievale di cui liberarsi.

Luca Ciarrocca è un giornalista che ha vissuto e lavorato molti anni a New York, dove nel 1999 ha fondato Wall Street Italia, sito indipendente di economia, finanza, politica e news. Nel 1997 ha vinto il premio di giornalismo Premiolino. Ha pubblicato il libro Investire in tempo di guerra (Nutrimenti).

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