Filippine in ginocchio, ansia per dodici italiani

by Sergio Segio | 12 Novembre 2013 8:50

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PECHINO — «Total devastation» ha comunicato al suo comando il generale dei marines americani Paul Kennedy dopo aver sorvolato le città e i paesi centro-orientali delle Filippine che venerdì sono stati spazzati via dal tifone Haiyan. «Vedo corpi dovunque, anche nei cortili delle scuole», ha concluso il rapporto. Il Pentagono ha mobilitato un reparto di stanza a Manila, elicotteri e i suoi grandi aerei C-130 per portare soccorsi. La voce del generale Domingo Tutaan, portavoce dell’esercito filippino, è emozionata: «Sono in servizio da 32 anni, mi sono trovato a gestire molte calamità. Ma davvero non ho parole per descrivere quello che i nostri comandanti sul campo stanno vedendo».
Sono termini da campagna militare quelli ripetuti in queste ore: «Abbiamo elicotteri in ricognizione», ci sono squadre di «search and rescue», ricerca e soccorso. Ma il senso della battaglia persa di fronte all’irruzione mortale di Haiyan è nell’uomo visto dall’alto di un velivolo: sventola la bandiera bianca. Altri, tra i resti di villaggi di pescatori che non esistono più e dove i morti non sono ancora stati contati nè i sopravvissuti raggiunti, tracciano con la vernice la parola «Help», aiuto, sul terreno.
I soccorsi per le centinaia di migliaia di persone senza casa arrivano con lentezza atroce, in condizioni logistiche terribili: ci sono solo dieci chilometri tra l’aeroporto di Tacloban e il centro della città, quella che era una città di 220 mila abitanti, capoluogo dell’isola orientale di Leyte e «ground zero» della catastrofe. Ma ancora ieri, per fare quei dieci chilometri in camion ci volevano sei ore, manovrando tra pile di cadaveri, tronchi d’albero, detriti di ogni tipo e sopravvissuti a caccia di acqua, cibo, ogni cosa utile a sopravvivere. «Se avete bottiglie d’acqua o scatolette potreste dividerle con noi?», ha implorato al microfono della Cnn una donna con un sacco della spazzatura in testa, l’unico vestito che le è rimasto.
Ieri l’ambasciatore italiano a Manila Massimo Roscigno ha parlato di una dozzina di nostri connazionali dei quali non hanno ancora notizie, «speriamo sia solo un problema di comunicazione» ha aggiunto. La Farnesina sta cercando di rintracciarli dopo aver ricevuto la segnalazione delle loro famiglie: «Non si erano registrati sul nostro sito, cosa che si dovrebbe sempre fare prima di lasciare l’Italia» ha detto Emma Bonino. Il ministro degli Esteri ha poi confermato che il nostro Paese stanzierà 1,3 milioni di euro in aiuti. Anche papa Francesco ha inviato un contributo, 150 mila dollari, in soccorso delle popolazioni colpite. È tutto il mondo a mobilitarsi per il Paese asiatico. Con l’Unicef che si sta attivando per assistere i quattro milioni di bambini coinvolti, mentre i dottori di «Medici senza Frontiere» sono arrivati a Cebu per prestare soccorso.
Come succede con frustrante ripetitività in ogni parte del mondo colpita da una calamità naturale, cominciano le polemiche. Perché questa strage se il governo di Manila sapeva da giorni che Haiyan stava arrivando? Era nota anche l’ora esatta dell’impatto, venerdì. E perché quattro giorni dopo intere comunità aspettano ancora i soccorsi? Non si conosce nemmeno il numero dei morti: il conteggio ufficiale ieri sera era a 1.700, ma le stime restano molto superiori: l’Onu calcola che solo a Tacloban le vittime sono oltre 10 mila. La situazione della sicurezza, anche per i soccorritori, è grave. Ci sono bande di razziatori in giro. Il governo ha inviato altri 500 soldati per fermare lo sciacallaggio. I nove milioni di filippini colpiti dal tifone sono un enorme problema in più per il presidente Benigno Aquino, già alle prese con varie insurrezioni endemiche e con corruzione a tutti i livelli dell’amministrazione.
La foto della prima bimba nata censita dopo il disastro nelle Filippine ha fatto il giro del mondo. L’hanno chiamata Bea Joy, come la nonna Beatriz, dispersa, trascinata via dai venti e dall’ondata del tifone Haiyan. Ma le hanno dato anche il nome Joy, «gioia», perché la nascita di una bimba, anche in situazioni estreme di dolore, è una gioia immensa. È venuta alla luce in un ospedale da campo, piazzato in quello che resta di una struttura dell’aeroporto di Tacloban. La mamma Emily ha 21 anni. L’avevano evacuata in un rifugio venerdì, prima che arrivasse Haiyan, classificato come il peggior ciclone della storia da quando esistono rilevazioni scientifiche. Ma il rifugio è stato invaso dall’acqua e Emily ha dovuto uscire da una finestra, nuotare nel fango per salvare se stessa e la piccola che doveva nascere. «Un miracolo, pensavo di essere persa», ha detto.
Haiyan ieri ha attraversato anche il Vietnam, dopo aver deviato nella sua corsa e perso potenza. È stato declassato da ciclone a tempesta tropicale, ha ucciso «solo» tredici persone e ne ha ferite un’ottantina.
Guido Santevecchi

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