by Sergio Segio | 21 Novembre 2013 9:25
MILANO — Eni chiude l’avventura siberiana nel modo più prevedibile: lasciando le attività ex Yukos ai nuovi oligarchi russi in cambio di una lauta plusvalenza, stimabile in circa 1,7 miliardi di euro, e che deriva dalla differenza tra i 2,94 miliardi di dollari all’incasso e i 600 milioni scritti in bilancio.
Le trattative erano in piedi da settimane e l’uscita dei partner italiani prevedibile dopo che due mesi fa Enel aveva ceduto una simile tranche a Rosneft a 1,8 miliardi di dollari. Proprio Igor Sechin, potente patron di Rosneft aveva incontrato a Roma, a inizio novembre, alti dirigenti Eni per convincerli a vendere le loro quote. Da quanto siglato ieri a Mosca sembra che il Cremlino abbia preferito l’ottica divide et impera: il 60% di Artic Russia (che detiene il 49% di Severenergia) lo compra Yamal, società paritetica tra Novatek e Gazpromneft, e che nel 2010 avevano rilevato da Gazprom il 51% già “ripreso” ai soci italiani.
«Eni monetizza l’investimento, giunto a un elevato livello di maturità nell’upstream siberiano – riporta una nota – coerentemente con gli obiettivi di creazione di valore per gli azionisti». In prospettiva storica queste parole suonano un po’ consolatorie. Quando in aprile 2007 fu assegnato al duo Eni-Enel il secondo lotto di asset Yukos messi all’asta a Mosca dopo l’incarcerazione – che dura dal 2003 – di Michail Khodorkovsky per reati fiscali (e il finanziamento dell’opposizione a Putin), il Cane a sei zampe parlò di «grande passo» in Russia. Scaroni e l’ad Enel Fulvio Conti sottolineavano la capacità strategica di risalire alle fonti in loco, il ministro per lo sviluppo economico Pier Luigi Bersani salutò «il radicamento di nostre imprese nell’upstream russo, con un po’ di coraggio possono svolgere un ruolo internazionale».
La disponibilità italiana a rilevare parte degli attivi sottratti a Yukos dal Cremlino (uno primo lotto andò alla stessa Rosneft) fu ai tempi aspramente criticata dai soci minoritari di Yukos, che intentarono cause in Usa e Gran Bretagna per quel che sembrava un portage politico. Proprio Gazprom – primo fornitore di gas a Eni all’Italia – nell’evitare un coinvolgimento diretto aveva ottenuto dagli italiani un’opzione sul 51% di Severenergia, esercitata per 1,5 miliardi già nel 2009. Attualmente quei giacimenti siberiani, che avevano subito un blocco nel 2003, sono stati solo in parte sviluppati ristorati: una sola delle quattro licenze cedute è attiva (Samburskoje) e produce 30mila barili; le stime erano di produrne 150mila al 2016. Eni non lascia però tutta l’esplorazione in Russia: dal 2012 collabora con Rosneft su asset esplorativi nei mari Nero e di Barents.
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