Diplomazia degli aiuti, ultima la Cina
PECHINO — Il ciclone Haiyan ha devastato le Filippine lasciando oltre quattromila morti e seicentomila senza casa: c’è anche una vittima italiana. Poi è risalito a nord, lungo il Vietnam, altre centinaia di migliaia di evacuati. Di fronte alle coste sudoccidentali della Cina ha perso gran parte della sua forza: ma Haiyan ha colpito Pechino in un altro modo, ferendo la sua immagine internazionale. Mentre l’Onu chiedeva agli Stati membri 300 milioni di dollari di donazioni, il governo cinese rispondeva offrendo 100 mila dollari. Una cifra indecorosa per la seconda economia del mondo. Uno schiaffo dovuto al risentimento cinese nei confronti delle Filippine per una disputa territoriale. Il Global Times , quotidiano di Pechino controllato dal partito comunista, ha avuto il coraggio di protestare.
La sofferenza del popolo filippino, a Pechino è diventata un caso di geostrategia. Il governo ha cercato di riparare, alzando l’impegno a 1,6 milioni di dollari. Ma ormai la stampa internazionale si era impadronita della vicenda: è stato scritto che la seconda potenza del mondo ha dato meno dell’Ikea. I mobilieri svedesi hanno messo a bilancio 2,6 milioni di dollari di aiuti umanitari.
Ma non è solo una questione di dollari. Il vento assassino di Haiyan ha aperto la strada a una sorta di «diplomazia del disastro»: i telegiornali mostrano gli elicotteri americani che stanno finalmente raggiungendo i filippini rimasti senza niente, tagliati fuori in zone isolate e in città e paesi spazzati via. I grandi Seahawk fanno la spola con il ponte della portaerei «George Washington» alla fonda di fronte all’isola di Saman. Era in visita a Hong Kong, venerdì 8 la «George Washington», quando le isole centro-orientali delle Filippine sono state colpite dal muro d’acqua spinto dai venti del tifone. Il comando della Settima Flotta ha deciso di dirottarla immediatamente verso il Paese alleato, con due incrociatori e altre sei unità della US Navy. L’America intanto stanziava aiuti umanitari civili per 20 milioni di dollari. Si sono mossi gli inglesi, spostando la «HMS Daring» che era a Singapore, facendo salpare verso l’arcipelago la più grande unità della Royal Navy, la portaelicotteri «Illustrious». Ieri il premier Cameron ha annunciato con orgoglio che i fondi britannici a disposizione sono saliti a 50 milioni di sterline: «Sono lieto che il Regno Unito guidi gli sforzi del mondo». L’elenco dei soccorritori si è allungato al Giappone: mille soldati sbarcano nelle Filippine, la più grande missione all’estero dalla Seconda guerra mondiale; un ritorno a Manila dopo la feroce occupazione imperialista.
A Pechino guardano. E ora gli editoriali della stampa di partito dicono che la Marina cinese assiste impotente e surclassata allo schieramento delle flotte americana e britannica, allo sbarco dei giapponesi. Gli analisti militari hanno osservato che nonostante la corsa al riarmo navale, la Repubblica popolare è ancora lontana anni luce dalla capacità operativa della US Navy e anche della più piccola Royal Navy. Però, la Cina non è del tutto impreparata a queste missioni: nei mesi scorsi ha esibito la sua nave ospedale «Arco di Pace». E l’altro giorno nell’isola hawaiana di Oahu militari cinesi e americani hanno tenuto un’esercitazione congiunta, un test di soccorsi dopo una calamità naturale. I giornali di Pechino hanno mandato inviati speciali che hanno raccontato: «Immaginate un uragano che abbia sollevato un muro d’acqua alto sei metri scaraventandolo contro la costa di un’isola… i sopravvissuti invocano aiuto, piangono. Ecco, arriva la nuova cavalleria dei soccorsi, formata da soldati cinesi e americani». Peccato che sia stata solo una finzione. Peccato che alla prova della «diplomazia dei disastri» realmente accaduti la Cina si sia ritirata nel suo angolo.
Guido Santevecchi
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