Cronache di una democrazia malata
Ma che oggi si configurano con una limpidità e una chiarezza addirittura pedagogiche. Sono anche fenomeni che i classici della democrazia hanno ampiamente discusso e analizzato, senza successo bisogna aggiungere. Non è vero infatti che la storia è maestra di vita: ogni volta si ricomincia da capo.
La democrazia è, senza alcun dubbio, la migliore invenzione degli uomini per la loro organizzazione politica e sociale, ma declina e degenera quando si spezza la relazione tra «governanti» e «governati», con effetti negativi sugli uni e sugli altri. È in queste situazioni che può scattare la rivolta, l’«indignazione», la quale a sua volta può assumere varie forme: nel passato lo scontro aperto, la guerra civile, la rivoluzione; oggi la protesta, il discredito e il disprezzo verso le istituzioni, oppure il silenzio, la stanchezza, il rinchiudersi nelle forme di solitudine proprie dei tempi di crisi della democrazia.
In un Paese come il nostro in cui persiste una cultura, e un bisogno, di partecipazione questa situazione può sfociare anche in una esigenza generica e indistinta, ma radicale, di «novità». A una condizione però: che questa «novità» si presenti nei termini di una rottura netta, come l’affermazione di un «nuovo inizio» che taglia i ponti con il passato liquidando un’intera classe dirigente e, più in generale, tutta una storia. È la cosiddetta «rottamazione»: un termine brutto ma efficace, in grado di esprimere, con la sua violenza lessicale, l’ideologia di cui è figlio.
Il successo, a destra come a sinistra, di posizioni come queste ha solide radici: sgorga infatti dalle visceri della crisi organica della democrazia che stiamo attraversando. Ed è tanto più vasto quanto più essa si presenta in modo generico e indifferenziato: nelle situazioni di crisi è la questione generazionale che diventa, infatti, il contenuto o, almeno, il contenuto più importante, intorno al quale si agglutina il resto. Un solo esempio: oggi la crisi dell’Università viene presentata, anche dai suoi massimi dirigenti, come un problema generazionale. L’affermazione non è certo priva di fondamento ma è al tempo stesso grottesca, come sempre accade quando di fronte a una crisi si parte dagli epifenomeni, pur significativi, e non dalle radici.
Dalle radici occorre invece partire di fronte alle attuali convulsioni della destra e del centro, e anche ai problemi del Pd. Né c’è dubbio che oggi il problema di fondo sia costituito anzitutto dalla crisi organica della nostra democrazia che, in questi giorni, si sta ulteriormente accelerando per l’esplosione e la frantumazione dei capisaldi che, bene o male, hanno retto il nostro sistema politico negli ultimi vent’anni. È finita ormai una lunga storia; né è facile capire come la situazione evolverà, anche perché il destino dell’Italia non è più, e da molto tempo, solo nelle nostre mani.
Alcuni dati però appaiono chiari, sul piano del metodo e del contenuto. Bisogna anzitutto fare una analisi «sistemica»: qui non è in questione la sorte di un singolo partito o di uno schieramento. Si stanno logorando, e a volte spezzando, i vincoli che tengono uniti una nazione. Ed è in questo quadro che vanno situati i fenomeni che una fase di crisi organica della democrazia genera in modo naturale, ma tumultuoso e anche incontrollabile: corruzione, gravi degenerazioni, miserie da una parte; dall’altra un «ribellismo» inteso come bisogno certo indeterminato, tuttavia profondo e generalizzato, a destra e a sinistra di «novità». È un processo che coinvolge tutti gli schieramenti e che sarà destinato a radicalizzarsi ulteriormente se la crisi non verrà affrontata con mezzi adeguati.
Questo sul piano del metodo. Ma si può fare qualche considerazione anche sul piano dei contenuti, considerando la storia degli ultimi anni. Il partito «liquido» e il partito «personale» in modi diversi, ovviamente sfociano in forme autoritarie. È un dato acquisito: per molti aspetti sono facce simmetriche di uno stesso processo di degenerazione della democrazia rappresentativa. Infatti, più si restringono le basi del potere e si indeboliscono i meccanismi di controllo più aumentano i rischi di degenerazioni autoritarie e addirittura dispotiche e più duro e convulso diventa il rapporto tra «dirigenti» e «diretti» . Da questa situazione non si esce mettendo in quarantena la politica, subordinandola alla «tecnica»: al contrario, come abbiamo potuto constatare, per questa via si acuisce e si incancrenisce la crisi della democrazia. Dalla quale non si esce, né si può uscire, senza politica. Senza legami reciproci, senza vincoli, gli individui precipitano in forme di solitudine, di isolamento, di subordinazione: perdono quell’autonomia che è la condizione della loro libertà e, quindi, della democrazia. Oppure, si mettono alla coda di un capo, di un leader che sembra garantire loro, comunque, un elemento di «novità», una rottura con il passato, con la storia precedente, rifiutata come un cumulo di inganni o di errori. Sono entrambe strade senza uscita.
Democrazia vuol dire partecipazione; ma non ci può essere partecipazione senza organizzazione, cioé senza politica. Politica democratica, preciso: perché senza organizzazione non c’è democrazia. Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte: in che modo organizzare la partecipazione, nel nuovo millennio, quando si sono esaurite le forme classiche della politica di massa, inventate nel Novecento? E come trasformare in strumenti effettivi di democrazia novità come la rete, capaci di sconvolgere la vita quotidiana di milioni di individui? In che modo intercettare, da sinistra, il nucleo di verità e l’esigenza di cambiamento che è racchiuso nel sentimento di indignazione, nelle forme di ribellismo, nella ideologia della novità e della «rottamazione»? Sono problemi che gli avvenimenti di questi mesi mettono sotto i nostri occhi in modo drammatico e che riguardano tutti, la destra e la sinistra, perché coinvolgono il destino della nostra democrazia, cioè dell’Italia. Sono domande complicate, alle quali non è facile rispondere, ma è su questo limite che dobbiamo camminare se si vuole uscire dalla crisi. Personalmente sono persuaso di tre cose: la prima, che bisogna individuare risposte radicali all’altezza della crisi che stiamo attraversando, perché non è tempo né di «riformismo dall’alto» né di soluzioni politiche e sociali «neocorporative»; la seconda, che sarebbe necessario un «cervello collettivo»; la terza, fondamentale, che dobbiamo imparare la terribile lezione di questo ventennio.
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