by Sergio Segio | 17 Novembre 2013 8:55
Mentre il mondo segue ancora la scia di distruzione che il tifone Haiyan ha seminato nelle Filippine[1] e in buona parte del sud est asiatico[2], dove il mercato globale cerca braccia a basso costo attirandole in fabbriche lager e in baraccopoli costruite su colline di fango, si è alzato il sipario sulla 19esima Conferenza delle parti[3](Cop19), dell’United Nations Framework Convention on Climate Change[4] (Unfccc), che dallo scorso 11 novembre fino al prossimo 22 novembre a Varsavia offre alle delegazioni di 195 Paesi di tutto il mondo l’opportunità per rendere le drammatiche conseguenze dei cambiamenti climatici l’occasione per discutere seriamente e con programmi concreti un nuovo paradigma di sviluppo, che riconcili il Pil con i limiti del nostro Pianeta.
Quello che fa da sfondo nelle TV e speriamo nelle coscienze dei delegati Onu[5] a Varsavia è probabilmente il tifone più distruttivo della storia e la seconda più grande catastrofe climatica dopo i diluvi già dimenticati che negli anni passati hanno fatto strage nella valle dell’Indo in Pakistan. In mezzo alle macerie della devastazione il conteggio ufficiale dei morti (oltre 2.000 quelli accertati), uccisi dalle piogge torrenziali e dai venti a 320 km/h, è difficoltoso. Purtroppo, i numeri sembrano destinati a salire col passare del tempo e secondo i dati del National Disaster Risk Reduction and Management Council[6] (Ndrrmc) le persone colpite dalle conseguenze di Haiyan saranno misurate in milioni. Ma la tragedia delle Filippine ha anche un altro nome: deforestazione[7]. Secondo il Forest Management Bureau[8], la copertura forestale nelle Filippine è scesa del 70%, dai 21 milioni di ettari del 1900 ai circa 6,5 milioni di ettari nel 2007, soprattutto a causa del disboscamento intensivo e della successiva conversione all’agricoltura. Una perdita che ha portato a tassi estremamente elevati di erosione del suolo e ed ha probabilmente contribuito ad aumentare il numero di catastrofi legate alle alluvioni, che ogni anno uccidono centinaia di persone nelle Filippine. Un monito alle migliaia di rappresentanti dei Paesi dell’Onu che a Varsavia potrebbero rimandare ancora una volta l’irrimandabile, mentre la gente muore nel fango delle Filippine e nella siccità del Sahel e della Somalia o fugge dal mare che sale in Bangladesh, alle Maldive e nelle isole del Pacifico.
La conferenza, però, non è iniziata sotto i migliori auspici, anzi sembra uno scherzo ironico il fatto che il Paese ospite sia proprio la Polonia uno dei maggiori consumatori al mondo di carbone, tra le risorse energetiche più economiche, ma anche più inquinanti. La Polonia, infatti, è al quinto posto in Europa per i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera dietro Gran Bretagna, Germania, Italia e Francia. Nel Paese quella prodotta dalle centrali a carbone rappresenta il 90% dell’energia elettrica utilizzata e per gli esperti ce n’è abbastanza per tirare avanti almeno un altro secolo e mezzo. Secondo il rapporto World Energy Outlook 2013[9] pubblicato in questi giorni dall’Agenzia Internazionale per l’Energia[10] (IEA), le energie fossili rimarranno a lungo preponderanti, anche perché i sussidi destinati a gas, petrolio e carbone sono il quintuplo di quelli stanziati a favore delle energie rinnovabili: nel 2012 ammontavano a 544 miliardi di dollari contro i 101 miliardi andati alle rinnovabili. Insomma, quanto meno dal punto di vista economico, nessuno (non solo la Polonia) pare abbia interesse a cambiare le cose nonostante le decise campagne delle associazioni ambientaliste e delle ong[11] internazionali come Wwwf[12] e Greenpeace[13] che chiedono, anche alla luce di quanto sta accadendo dall’altra parte del mondo, che “energia pulita e risorse ecosostenibili diventino questa volta un obiettivo concreto da perseguire e non il solito, rimandabile poi faremo”.
È sicuramente triste riconoscere che soprattutto nelle battaglie ambientaliste è stata spesso l’emotività dei disastri, ancor più che la lungimiranza e la volontà politica, a lanciare quello sprint decisivo utile a tagliare traguardi importanti. In Italia abbiamo due grandi esempi, entrambi legati alla tecnologia nucleare[14]. Il referendum del 1987, seguito all’incidente di Chernobyl e l’onda emotiva seguita al disastro di Fukushima che ha sospinto la schiacciante vittoria anti-nuclearista del 2011. Eppure un’analisi anche superficiale degli effetti dei cambiamenti climatici basterebbero per convincersi che è necessario cambiare rotta senza doverne tamponare annualmente le conseguenze. Sempre dall’Italia arriva alla conferenza Onu il contributo della Cgil[15], il cui giudizio è lapidario: “Secondo i dati recentemente diffusi dall’Agenzia italiana risposta emergenze sui disastri naturali[16]causati dai cambiamenti climatici – ha osservato[17]Simona Fabiani, responsabile ambiente e territorio della Cgil nazionale – nel 2012 nel mondo, si sono verificati 357 disastri naturali, che hanno colpito oltre 124 milioni di persone e causato danni per più di 157 miliardi di dollari. Si continua ad intervenire solo dopo che i disastri sono avvenuti mentre servirebbero serie politiche di prevenzione e manutenzione del territorio, per mitigare i rischi, salvare vite umane, risparmiare risorse economiche e creare occupazione”.
Un fenomeno mondiale che trova la sua conferma anche in Italia dove ha continuato[18] la Fabiani “sarebbero necessari almeno 40 miliardi di euro per la sistemazione delle situazioni di dissesto previste dai piani di assetto idrogeologico, di cui 11 miliardi per la messa in sicurezza delle aree a più elevato rischio. Negli ultimi 20 anni si sono spesi 22 miliardi di euro per riparare i danni causati da frane e alluvioni, ma le risorse previste per la prevenzione anche nell’ultima Legge di Stabilità continuano ad essere irrisorie ed assolutamente insufficienti”. Anche per questo pensare ad un altro modello di sviluppo, oltre che un investimento per il futuro, non deve essere solo contabilizzato come un saldo in rosso. “La transizione ad uno sviluppo sostenibile – ha concluso[19] la Fabiani – è dettata dall’emergenza di salvare il pianeta dal riscaldamento globale ma, allo stesso tempo,costituisce una grande opportunità per creare nuovo sviluppo e occupazione. La transizione ad un’economia low carbon deve avere una forte attenzione al lavoro[20], determinerà nuova occupazione verde, ma dobbiamo garantire che sia lavoro dignitoso e dobbiamo accompagnare il passaggio dei lavoratori dai vecchi ai nuovi settori. Per farlo occorrono investimenti e protezione sociale, dobbiamo studiare ed anticipare gli effetti della transizione sull’occupazione, promuovere lo sviluppo delle competenze e della formazione professionale necessarie”.
Così mentre il delegato delle Filippine Sano Naderev ha deciso di digiunare in segno di solidarietà con i suoi connazionali colpiti dal tifone Haiyan e affinché durante la conferenza si facciano progressi, per le attese conclusioni bisognerà aspettare la prossima settimana. Va detto che la delegazione filippina da anni sta esponendo alle varie Cop Unfccc i tragici resoconti di prima mano degli effetti del cambiamento climatico e che proprio Sano, durante la Cop18 di Doha del 2013, diventò famoso per il suo appassionato appello alla comunità internazionale perché agisse per arrivare ad un accordo che dia benefici già alla prossima generazione. Ora mentre Sano si chiede disperato che fine abbiano fatto i suoi parenti che vivono nella martoriata provincia di Leyte la società civile[21] chiede a gran voce di non rendere vano quest’ennesimo ammonimento del clima lasciandolo cadere nel nulla non appena i media, come spesso accade, vedranno esaurito il clamore della notizia e lasceranno le Filippine e il sud est asiatico al loro destino. Se è vero, come ricordava Einstein, che sono le crisi a portare il progresso, è il momento di saperlo indirizzare e i Governi dei paesi più industrializzati se ne devono fare carico tagliando le emissioni di gas serra. Se non altro perché in un mondo globalizzato si posso certamente esternalizzare le produzioni e raddoppiare i profitti, sfruttando e consumando la mano d’opera e l’ambiente al di fuori del “nostro giardino”, ma le conseguenze climatiche di questo sistema produttivo no, quelle non le possiamo esternalizzare. Quelle soffiano sempre più forte dalleFilippine alla Polonia e vedremo se, oltre alla corsa agli aiuti e le importantissime raccolta fondi attivate, come quella dallaFOCSIV[22] a sostegno dei bambini e delle famiglie che hanno trovato riparo nelle sette strutture del suo organismo associato VIDES[23], il tifone spazzerà via dalle sale dell’Unfccc di Varsavia l’ipocrisia di chi piange i morti considerandoli solo un inevitabile effetto collaterale della globalizzazione[24].
Alessandro Graziadei[25]
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