Chiusi i campi di lavoro Finita l’era del figlio unico

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PECHINO — Il governo cinese ha deciso di allentare la «politica del figlio unico» e di abolire i «campi di rieducazione». Due sistemi da Stato di polizia odiati dai cinesi e odiosi per il mondo. Due sistemi che hanno ucciso, oppresso e fatto soffrire milioni di esseri umani. La promessa è contenuta nel lunghissimo comunicato del Terzo Plenum del Comitato centrale comunista, quello di cui finora si è parlato per la nuova apertura al mercato. Ma ora le riforme prendono un aspetto umano che mette in ombra ogni calcolo di macroeconomia.
La legge del «figlio unico», che dalla fine degli anni Settanta ha causato una strage di bambini mai nati, viene rivista: d’ora in poi nelle città, le famiglie in cui uno dei genitori sia figlio unico potranno «permettersi» di avere due bambini. La Cina cominciò ad «incoraggiare» le coppie a fare meno figli nel 1971, per evitare l’esplosione della bomba demografica. Nel 1980 il regime impose la «politica del figlio unico». Quest’anno il ministero della Salute di Pechino ha comunicato i numeri di questa imposizione: dal 1971 i medici cinesi hanno praticato 336 milioni di aborti e hanno sterilizzato 196 milioni di uomini e donne. In base a questa contabilità dell’aborto, nella Repubblica Popolare sono state interrotte in media oltre sette milioni di gravidanze all’anno per quarant’anni.
L’applicazione di quella politica ha causato effetti demografici perversi. Uno è lo squilibrio di genere: i maschi sono 34 milioni più delle femmine, perché quando una coppia scopre di aspettare una bambina, sapendo che poi non potrà avere un altro bimbo, spesso ricorre a un aborto selettivo. E poi l’invecchiamento della popolazione, con danni economici. Ma soprattutto c’è la disumanità ottusa da parte di chi l’ha fatta applicare. Ricordiamo un caso accaduto a febbraio: in casa di due genitori che avevano violato la regola si sono presentati 11 agenti dell’ufficio pianificazione; il padre ha preso in braccio il piccolo illegale di 13 mesi ed è fuggito in strada; nell’assurdo inseguimento il bambino è stato investito e ucciso dall’auto dei funzionari.
L’altro grande annuncio è l’abolizione del «laojiao», la «rieducazione attraverso il lavoro» forzato, un sistema di campi di concentramento che era stato istituito negli anni Cinquanta da Mao Zedong per punire i «controrivoluzionari». Ci sono passati milioni e milioni di sventurati. Il loro numero è incerto, perché la sanzione era amministrativa, lasciata all’arbitrio delle varie polizie locali, senza bisogno nemmeno di rivolgersi a una magistratura.
Era da anni che molte voci si erano levate coraggiosamente in Cina per invocare la chiusura di questo arcipelago gulag. Ci sono finiti non tanto gli oppositori, i dissidenti famosi: per quelli c’è il carcere. Ci sono stati rinchiusi ladruncoli, prostitute. E soprattutto persone semplici che avevano semplicemente creato problemi alle autorità. Soprattutto a quelle delle province. Il «laojiao» per esempio è la punizione tipica per chi presenta petizioni al governo centrale, lamentandosi per ingiustizie subite nelle lontane città e nei villaggi, mettendo così in cattiva luce i capi del posto.
Nel comunicato del Comitato centrale non si dice quando esattamente saranno smantellati i campi. Si parla però di «un grande sforzo per proteggere i diritti umani». E si promette di ridurre il numero dei crimini soggetti a pena di morte: «passo dopo passo».


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