Chi chiede le riforme e non le vuole

by Sergio Segio | 21 Novembre 2013 10:47

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Non tanto per l’omaggio che presta alla leadership di Berlusconi, quanto per la necessità di non lasciarsi inchiodare alla croce del tradimento.
Per questo, bisognerà che sventoli quotidianamente la sua bandiera sull’azione di governo, alzando la posta. Al più, non sentiremo gli estremismi verbali di un Brunetta.
Notiamo che quanto accade smentisce consolidati luoghi comuni in tema di riforme costituzionali, tra i quali non pochi volti al totem stabilità / governabilità. Avere un leader eletto con la sua maggioranza; sapere la sera del voto chi ha vinto; governare per tutta la durata del mandato e rispondere agli elettori a conclusione dello stesso; avere maggioranze omogenee e coese. Per non parlare dell’uomo solo al comando. Secondo un’opinione, una realtà già inveratasi in una concreta evoluzione politico-istituzionale, anche se non scritta in una revisione formale della Costituzione. Di certo, qualche sponda nella prassi e nella legislazione si trova. Il vituperato Porcellum, infatti, che prevede uno straripante premio di maggioranza, l’indicazione obbligatoria di un capo del partito o della coalizione, e la lista bloccata rimessa alla scelta dei leaders, presta allo scenario sopra descritto una sponda che molti non amano vedere.
Letta e il suo governo sono l’esatto contrario di tutto ciò. Dopo il voto, non era chiaro a nessuno chi avesse vinto e chi avesse perso. In ogni caso, il leader eletto avrebbe dovuto al più vedersi in Bersani, e non in Letta. La maggioranza che ha poi sostenuto il governo in carica è la più eterogenea che possa immaginarsi. Il tempo di sopravvivenza è incerto, ma comunque ben più breve dei cinque anni della legislatura. E nemmeno la più esilarante satira televisiva potrebbe raffigurare Letta come l’uomo solo al comando.
Realtà e rappresentazione divergono. Lo stesso può dirsi per la formazione dei nuovi gruppi parlamentari Ncd. Non molti sanno che il disegno sopra descritto doveva essere completato con una modifica dei regolamenti parlamentari volta a impedire o limitare fortemente la formazione di nuovi gruppi parlamentari in corso di legislatura. La cosa era vista come corollario del principio dell’elezione sostanzialmente diretta del leader con la sua maggioranza per la durata della legislatura. Argomento da un ventennio almeno propugnato da Berlusconi e dalla destra, ma alla fine vincente anche a sinistra. Lo dimostrano le proposte bipartisan di modifica dei regolamenti presentate nelle leg. XV e XVI (tra i presentatori Gasparri, Quagliariello, Cicchitto, Veltroni, Versace, Negri, Franceschini).
Simili proposte si mostrano incompatibili con il divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 della Costituzione. Alla fine, si comprime ulteriormente un parlamento già messo all’angolo. Volendo proseguire su questa strada, se l’obiettivo è blindare il governo con la maggioranza uscita dal voto, perché non direttamente prescrivere la nullità del voto sulla fiducia espresso dal parlamentare in modo difforme dal voto dato per la prima investitura del governo all’inizio della legislatura?
La tendenza evidente è verso una grave e inaccettabile compressione della rappresentanza politica e della democrazia. Ma qui può interessare il fatto che – se le riforme prospettate fossero state in atto – il governo Letta non avrebbe visto la luce. Probabilmente, saremmo andati immediatamente a nuove elezioni. E oggi, se le modificazioni dei regolamenti parlamentari fossero state vigenti, i gruppi Ncd non avrebbero potuto formarsi, e il magnificato rafforzamento del governo non ci sarebbe stato. Ma allora è lecito chiedersi: è o non è il governo Letta lo strumento per la salvezza della patria? E se lo è, possiamo mai con noncuranza gettar via gli strumenti politico-istituzionali che ieri lo hanno fatto nascere e oggi gli consentono di sopravvivere? La storia si vendica.
La essenziale elasticità propria della forma di governo parlamentare sembra essere stata un asset decisivo nell’affrontare la crisi. Ha fascino l’argomento che dobbiamo fare le riforme perché un governo del presidente e di larghe intese come quello Letta non sia mai più necessario. Ma chi ci può garantire che non avremo mai più bisogno dell’elasticità delle forme istituzionali che lo hanno fatto nascere e vivere? Il futuro non promette rapidi recuperi, e facili prosperità. Richiede capacità di rappresentare i bisogni e trovare mediazioni efficaci e sostenute da consensi reali. E ci dice anche che nelle riforme quel che non serve di certo è la stanca ripetizione dei mantra di un tempo.

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