CHATWIN LETTERE SPEDITE DALLA FINE DEL MONDO

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Molto spesso Bruce Chatwin dava l’impressione di nascondere con la stessa misura con cui raccontava. Non si è mai capito bene perché ha continuato fino alla fine a recitare il teatrino della sua eterosessualità presunta, talmente abile da ingannare molti amici. Negli ultimi tempi, dopo essere diventato sieropositivo, era stato assalito dal terrore di vedere comparire il suo nome sui giornali accanto alla parola che odiava, Aids. E si inventò la storia che il suo sangue era stato avvelenato dal morso di un pipistrello cinese. Era una sindrome esotica all’altezza della fama dello scrittore. Poi diventò una farsa perché tutti tentarono di aiutarlo, cercando qualcosa che non esisteva.
Questo gioco a nascondino era veramente ridicolo: l’Inghilterra aveva fatto passi in avanti dopo la condanna di Oscar Wilde. Era il paese più libero del mondo, anche vent’anni o trent’anni fa, la presenza degli omosessuali nella società si dava per scontata e «ognuno poteva indugiare nel suo genio», come aveva detto Norman Douglas molto tempo prima. Sarebbe stato preoccupante se fosse stato vero il contrario.
Riuscì a scrivere Utz allo stremo delle sue forze. E contemporaneamente si disfece di tutti gli oggetti, anche preziosi, che aveva radunato nei viaggi e anche durante la sua permanenza alla Sotheby’s, regalandoli agli amici. A Michael Ignatieff, uno che scriveva bene quasi quanto lui e che aveva pubblicato un bellissimo libro sui parenti russi, regalò una rara prima edizione dell’Armata
a cavallo di Isaac Babel, un capolavoro della letteratura sovietica. Alla figlia della sua amica Gertrude lasciò i primi pezzi di una collezione d’arte che comprendeva una cera del Nettuno di Giambologna. Robin Lane Fox, lo storico di Alessandro Magno, ricevette una busta di cartoncino marrone con quattro fotografie in bianco e nero di giovani del Nuristan con dei viticci tra i capelli. Non si poteva più muovere senza la sedia a rotelle e un giorno, accompagnato da un amico, si mise a correre sulla sedia a velocità pazza per la Burlington Arcade in direzione Piccadilly, seminando il panico tra i passanti.
Era anche il momento di spese compulsive nei negozi di Cork Street e Bond Street dove comprò un bracciale dell’età del bronzo per 65 mila sterline, una testa etrusca del valore di 150 mila sterline. Il giorno dopo la sua morte i giornali inglesi, anche quelli di tutto il mondo, scrissero degli obituaries così partecipati che lo scrittore, suo vicino di casa, James Lee-Milnes disse un po’ meravigliato: «Sembra quasi che sia morto Byron ». Ai funerali, celebrati con il rito greco-ortodosso c’era una folla immensa. Erano tutti venuti a dare l’addio al Golden Boy di una generazione che aveva rifondato la narrativa di viaggio.
Adesso è uscito un libro che raccoglie le sue lettere intitolato L’alternativa nomade, curato dalla moglie Elizabeth e da Nicholas Shakespeare (edito da Adelphi, pagg. 495, euro 26). Sono lettere estremamente vivaci, per la maggior parte inviate dalle terre più remote e dagli indirizzi più esclusivi. Chatwin proveniva da una famiglia piccolo borghese del Midland, tanto più borghese quanto lui era snob. Quando viaggiava non andava genericamente in Grecia, ma a Chora, nell’isola di Pathmos, ospite di Teddy Millington Drake che dipingeva delicati acquerelli e che era stato l’amante dei suoi anni giovanili. E quando scendeva in Toscana, andava a Donnini, ospite di Gregor Von Rezzori, lo scrittore internazionale che aveva pubblicato dei libri splendidi come Memorie di un antisemita.
A Donnini è rimasto a scrivere anche qualche mese di seguito e Griscia, come tutti chiamavano Von Rezzori, diceva sarcastico: «Per un grande nomade, è molto stanziale».
Arrivando sul posto, la prima cosa che faceva era scrivere ad Elizabeth e a vari amici: voleva far sapere a tutti i luoghi eleganti dove era stato ospitato. Spesso erano testi brevi più adatti forse per un risvolto di una cartolina, che per una lettera vera e propria. Comunque non è un materiale buono per ricostruire una biografia. Come diceva il duca di Beaufort citato nella prefazione da Shakespeare: «I posteri non dovrebbero mai giudicare le persone dalla corrispondenza poiché quello che si scrive un giorno è spesso il contrario di quello che si pensa il giorno dopo» e le contraddizioni contenute in queste lettere sono innumerevoli. Ma l’editore Tom Maschler, che aveva pubblicato anche Salman Rushdie, Ian McEwan e Martin Amis, diceva sempre che il miglior talento tra tutti loro era Bruce. È curioso che proprio lui facesse una separazione tra gli scrittori e i giornalisti, anche quelli bravi. I suoi reportage, come quelli scritti durante i tre anni in cui è stato nel leggendario “inside Team” nel Sunday Times, raccolti poi nel libro
Che ci faccio qui, sono la dimostrazione che se lo scrittore abbandona la sua superbia di autore, molla per qualche tempo di parlare delle cose che vanno al nulla eterno e si applica con umiltà alla cronaca, può risultare più efficace e più profondo del giornalista.
Con il tempo, Chatwin ha visto diminuire la sua popolarità, un fenomeno comune a molti scrittori famosi forse troppo famosi in vita per continuare ad esserlo da defunti. Ma nel caso di Bruce c’è anche un altro fattore: i suoi libri riflettevano talmente la sua persona – noi lo immaginavamo sempre in maglietta e calzoncini, di aspetto molto più tedesco che inglese, con The Road of Oxian di
Robert Byron ficcata nel sacco da montagna, mentre attraversava il Taklamakan, il deserto in cui si entrava, ma dal quale non si usciva – che senza di lui i libri non avevano più il sex appeal. Abbiamo molto amato le storie di Chatwin, ma è sempre stato un affetto riservato alla nostra generazione, che si riconosceva in lui nell’irrequietezza di quel viaggiare, sempre alla ricerca di qualcuno o di qualcosa. Adesso non so se il vecchio e un po’ abusato fascino del grande viaggiatore riesca ad attrarre a sé i ragazzi di vent’anni, (che vedo piegati da mane a sera sull’iPhone) in modo tale da farli entrare in libreria. Ma loro viaggiano in internet, i veri protagonisti del grande ritorno dello stanziale e del sedentario.
P.S. Nella quarta pagina dell’inserto fotografico di L’alternativa nomade c’è uno sbaglio che ha fatto sicuramente rivoltare nella tomba i resti di Robert Byron, il maestro di Chatwin. Una torre selgiuchide di non grandi dimensioni viene fatta passare per il celebre Gonbad-e Qabus, una potente torre-mausoleo dell’undicesimo secolo nel Nord dell’Iran, che sembra un razzo in partenza per la Luna e che domina il paesaggio tutt’intorno. Un capolavoro di struttura e di forza.


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