Caso Ligresti, la Cancellieri si salva la figuraccia la fanno i democratici
La fiducia, ormai è scontata. Lo spettacolo, meno. Una Camera da prima Repubblica, è infatti quella che si appresta a respingere la mozione di sfiducia a Cinque stelle contro la Cancellieri. Dopo un dibattito nel quale un ex democristiano come Rocco Buttiglione pare sentirsi a suo agio come non gli accadeva da anni. Interviene infatti al grido di: “Cancellieri ha fatto quello che avrebbe fatto chiunque di noi”. Lo stesso argomento di Fabrizio Cicchitto, ex socialista e ora Neo-centrodestro, guarda caso. Tanti tasselli che tornano al posto antico: come Fabio Rampelli, fratello d’Italia verace e diretto come ai tempi di prima di Fiuggi.
Una Camera da prima Repubblica, un ministro certamente da Seconda. La Cancellieri, nel ribadire decisa la propria “correttezza” nei comportamenti sulla vicenda Ligresti (“nessun favoritismo”, “nessuna omissione”, “Non ho mai mentito”, “si sono fatte congetture inaccettabili, è tutto falso”) mostra infatti una visione decisamente moderna del senso delle dimissioni (che non dà). Questa: “Se avessi avuto dubbi avrei lasciato”.
Il foro al quale Cancellieri deve dar conto, da ministro, dei propri comportamenti penalmente irrilevanti non è dunque il Parlamento, bensì il proprio foro interiore: lei sa di aver agito bene, dunque non si dimette. Inconsapevolmente, finisce così per seguire il consiglio del (pur a suo tempo dimissionario) Claudio Scajola: “Dimettersi equivarrebbe a un’ammissione di colpevolezza”. Il senso dell’opportunità politica di lasciare il proprio posto, un gesto che è per definizione slegato dalla sostanza delle accuse, è come si vede completamente perduto.
E infine, un Pd da Terza repubblica: vale a dire, col punto interrogativo. Gli occhi dell’Aula, in effetti, sono puntati tutti sui democratici, reduci dalla travagliata decisione (“macabra”, la definisce Brunetta) di farsi ingabbiare dal diktat di Enrico Letta, intervenuto ieri sera nell’assemblea democratica per spiegare che “la sfiducia a Cancellieri è una sfiducia a me”. Il compito ingrato di argomentare la plausibilità di una scelta che i più considerano politicamente suicida (i candidati alla segreteria preferivano le dimissioni, come ricordano sadici i Cinque stelle), è affidato a Walter Verini. Con una certa mestizia, l’ex braccio destro di Veltroni spiega che “senza prendere ordini da nessuno abbiamo deciso di respingere quello che è un attacco politico al governo”, aggiunge che “in modo solare, alcune parti del partito hanno auspicato un passo indietro del ministro”, ma che è troppo importante andare avanti “per fare le riforme e la legge elettorale”. Auguri a chi ancora crede nella riuscita dell’operazione.
Poi è il turno del segretario Guglielmo Epifani, che quasi implora Cancellieri di “fare qualcosa” per cancellare “l’idea radicata che ci si sia comportati così perché c’era di mezzo una famiglia di potenti”. E’ appunto questo, il problema. “La scelta di Letta è sbagliata”, ribadisce intanto Pippo Civati, che pur “a disagio” si uniforma alla volontà del gruppo. In aula, infatti, non si manifestano dissensi tra i democratici, come si conviene alla tradizione “de sinistra”.
Le difficoltà tuttavia si vedono tutte, e i deputati degli altri gruppi, dai Cinque stelle a Forza Italia e Nuovo centrodestra, si compiacciono nell’infilzarle: trattando Renzi come di fatto già segretario, eppure incapace di prevalere su Letta, il quale a sua volta è viene definito “debole”. Risuona in effetti tra i banchi la domanda: ma davvero in questo modo il governo è più forte?
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