Buffett, Harris e gli altri lo 0,01% che vince sempre

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NEW YORK. NON chiamateli l’un per cento. Potrebbero offendersi. Loro sono lo 0,01% per la precisione. Gli straricchi sono tornati, più potenti che mai. Rifioriscono non “malgrado” la crisi, ma “grazie” al cataclisma economico esploso nel 2008. Alla radice di alcune fra le maggiori fortune finanziarie di oggi, ci sono proprio delle operazioni speculative legate a quel disastro. Sfilano in un’inchiesta
i nomi più altisonanti, di coloro che moltiplicavano il proprio patrimonio mentre il resto della nazione (e del mondo) andava a picco. Alcuni sono nomi arcinoti, fra tutti spicca Warren Buffett che era già prima del 2008 l’uomo più ricco d’America. Nel suo caso, una buona dose di acume finanziario, e sangue freddo, lo hanno aiutato. «Siate timorosi quando gli altri sono accecati dall’avidità, siate avidi quando gli altri hanno paura». Questa sua massima, lui la mise in pratica nel momento più buio: tra il 2008 e il 2009 fece incetta di azioni di grandi società quotate, da Goldman Sachs a General Electric.

Mentre il piccolo risparmiatore cedeva al panico, e così facendo liquidava con forti perdite i propri portafogli azionari, lui rastrellava a man bassa e a prezzi di liquidazione.
Poi ci sono quelli, più invisi alla pubblica opinione, che si sono arricchiti direttamente speculando sulle disgrazie altrui. Il grande manager di hedge fund John Paulson, per esempio, aveva puntato proprio sul default dei mutui subprime. Mentre il crac dei titoli legati a quei mutui seminava disperazione tra milioni di famiglie colpite da pignoramenti giudiziari, lui intascava plusvalenze sulle sue speculazioni al ribasso. Ed era così accorto da farlo nella legalità, senza incappare nelle conseguenze giudiziarie che oggi perseguitano grandi banche del calibro di JP Morgan Chase o Bank of America-Merrill Lynch (anche loro accusate di avere contribuito al disastro dei mutui subprime, ma con azioni fraudolente nei confronti degli investitori e dei clienti). Poi ci sono storie meno note, nomi sconosciuti al grande pubblico, e tuttavia altrettanto clamorose. Bruce Karsh e Howard Marks, gestori del fondo d’investimento californiano Oaktree Capital, proprio nel 2008 si misero a fare incetta di bond privati, obbligazioni emesse da aziende. Le sceglievano tra le più malandate: distressed debt, letteralmente debito disperato, titoli emessi da imprese che sembravano condannate alla bancarotta. In certi casi il “distressed debt” può essere peggio dei junk-bond, i titoli spazzatura. Karsh e Marks attraverso Oaktree ne comprarono per 6 miliardi di dollari. Appena cinque anni dopo, il valore di quei titoli è raddoppiato esattamente: la plusvalenza è di 6 miliardi netti. Alcune aziende “distressed” sono davvero finite gambe all’aria, ma altre sono sopravvissute alla bufera, si sono risanate, e quei titoli che loro comprarono per pochi spiccioli ora valgono una fortuna. Un’altra storia che finisce in questo elenco ha come protagonista Joshua Harris, fondatore della finanziaria Apollo Global Management. Quando tutti vendevano in preda al panico, o erano costretti a farlo per rimborsare i propri debiti, lui rastrellò titoli obbligazionari nel settore petrolchimico. Ci ha guadagnato così tanto, che di recente si è tolto lo sfizio di comprare due squadre sportive, i Philadelphia 76ers della Nba (basket) e i New Jersey Devils (hockey).
Due tratti spesso uniscono i “profittatori” della grande crisi. In primo luogo, sono quasi sempre legati al mondo della finanza. Nel caso di Harris, e dei suoi colleghi nel top management della finanziaria Apollo, vengono tutti dalla defunta banca d’affari Drexel Burnham Lambert. Il nome di Drexel sembra appartenere a un’altra era geologica. Fu la banca spericolata per eccellenza, negli anni Ottanta. Ebbe al suo vertice Michael Milken, il trader dei junk bond condannato nel 1989 a dieci anni di carcere, personaggio che in parte ispirò il personaggio di Gordon Gekko nel primo film Wall Street di Oliver Stone. Oggi Milken è tornato in auge, ha un patrimonio di due miliardi, dà conferenze nelle università. Oltre al filo comune della finanza, gli straricchi condividono la passione per investimenti immobiliari della categoria dei “trofei”. Marks ha appena pagato 52 milioni per un appartamento al 740 Park Avenue di Manhattan. Più opulenti che mai, forse saranno loro i primi a vendere, se la “bolla gemella” della speculazione immobiliare e dei titoli hi-tech (Twitter & C.) dovesse travolgere tutti gli altri, cioè i risparmiatori allo sbaraglio.


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