BELLEZZA E POLITICA
TORINO. «Abbiamo amato tanto la rivoluzione » dice una scritta al neon nell’enorme sala della Fondazione Merz e la frase si riflette sullo spesso tappeto di vetro frantumato che copre l’intero pavimento: 150 tonnellate di schegge, per la precisione. Il visitatore le sente scricchiolare sotto i piedi come una presenza inquietante. Sta camminando sul suo passato, sui sogni infranti di una generazione che voleva cambiare il mondo. Quanto rimpianto, quanta nostalgia. «Sì – dice Alfredo Jaar – ma quanta
possibilità di rinascere. Il vetro è un materiale che si ricicla, può avere un’altra vita, e un’altra e un’altra ancora». Un suono stridulo si diffonde nella sala: proviene da un video girato nel 1981, nel Cile di Pinochet. È lo stesso artista che tenta di suonare un clarinetto e non sa come. Note sgraziate, ma necessarie. «Sotto la dittatura non si può parlare chiaro, ma bisogna comunque tentare di far sentire una voce». Il piffero della rivoluzione suona come può, con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà di gramsciana memoria. E infatti il volto di Gramsci – che con Pasolini è uno dei numi tutelari dell’artista – campeggia, moltiplicato in dodici disegni. «Ne sono ossessionato: appena ho del tempo libero, lo disegno».
Se c’è un artista politico al mondo, questo è Alfredo Jaar, che ha appena inaugurato la sua mostra (a cura di Claudia Gioia) a Torino. Coccolato dalla critica d’arte, esposto ovunque, (ha firmato più di 60 opere pubbliche in tutto il mondo) invitato ad ogni Biennale importante (da Documenta all’ultima Venezia, dove ha esposto un poeticissimo lavoro nel padiglione cileno) è sicuramente un caposcuola di quella wave estetica che unisce arte e impegno, poesia e militanza. «Io sono nato 57 anni fa in Cile – spiega – ho visto il golpe contro Allende: per fare arte ho dovuto subito imparare a parlare poeticamente tra le righe, a parlare senza parlare. Capisce? Era l’arte della resistenza. Io avevo a che fare con la censura. Per me l’arte è stata politica sin dal primo momento».
Fino a farla scappare dal Cile.
«La dittatura mi soffocava, dovevo fuggire. Ma mio padre mi convinse a laurearmi in architettura prima di partire. Così quando arrivai a New York nell’82, per cinque anni mi mantenni lavorando come architetto. Ma nel frattempo cercavo di capire il mondo dell’arte americano: gallerie, musei, artisti. Tutto, insomma. Era molto affascinante, ma ho scoperto due cose fondamentali. La prima è che l’America era molto provinciale ».
Provinciale? Erano gli anni ’80, Manhattan era la capitale culturale del globo, l’ombelico del mondo.
«Macché. Si parlava solo di New York, di Stati Uniti, e mai di Asia, Africa, America Latina. Esistevano solo artisti americani e al massimo qualche tedesco. Per gli altri non c’era posto. Io, come sudamericano, non esistevo. La seconda cosa che ho scoperto è che in America neanche il mondo esisteva. C’erano 35 conflitti internazionali, e nessuno ne parlava. Per me era inconcepibile: per me la relazione tra conflitto e arte è naturale, è il contesto nel quale viviamo».
Però l’America le ha dato anche la grande occasione della sua vita.
«Vero. Nell’86 presi in affitto tutti gli spazi pubblicitari di una stazione della metropolitana di Spring Street, vicina a Wall Street, affissi grandi poster con le foto che avevo scattato nelle miniere d’oro di Serra Pelada, in Brasile. Erano immagini di un inferno dantesco: uomini seminudi, coperti di fango che come formiche brulicano nella enorme cava della montagna. A fianco di ciascuna foto c’era una semplice scritta: la quotazione del prezzo dell’oro in una delle Borse del mondo».
Pagò lei un intervento così costoso?
«No, partecipai ad un concorso del Guggenheim per una borsa e a loro piacque il progetto. Così lo finanziarono: e pensi che io non ero nessuno in America, sono stati bravi!… E da lì è cambiata tutta la mia vita. Achille Bonito Oliva mi portò alla Biennale di Venezia, poi mi hanno invitato a Documenta e poi via via in tutto il mondo e ho potuto dedicarmi solamente all’arte. Sono stato il primo sudamericano chiamato a Venezia: per dirle che cos’era il mondo artistico all’epoca».
In effetti quel suo lavoro sull’oro crea uno shock visivo molto forte, mostrando il nesso tra due realtà che noi non siamo abituati a collegare. Da una parte il valore asettico dell’oro, dall’altra il lavoro di uomini reali, la fatica fisica bestiale, le vite individuali spezzate in miniera. Ma a volte nell’arte politica il messaggio è preponderante: se le opere fanno la morale che cosa resta dell’estetica?
«Sì, capisco il rischio. Ma io voglio informare con poesia. Non cerco informazione pura e non cerco poesia pura: ma un equilibrio perfetto tra le due. Perché se l’opera è troppo bella, troppo poetica, allora perde l’informazione. Diventa vuota. Anche se è bellissima, è solo decorazione. Ma se invece è troppo didattica, diventa banale. È una linea molto sottile quella che cerco. A me piace l’arte critica, l’arte che contiene un pensiero».
E infatti lei dice che l’arte è 99% pensare e 1% fare.
«Sì, per me è un modello di vedere e pensare il mondo. Quando devo fare un lavoro, che sia in Ruanda o in Australia, per prima cosa io vado, studio, mi informo, devo capire. Il lavoro nasce dalla realtà che vedo: è il metodo che ho imparato dall’architettura. Infatti io dico che sono un architetto che fa arte, non sono certo un artista da studio, non ho fatto un solo lavoro che è nato dalla mia immaginazione. Per questo dico che tutta l’arte è sempre politica: una concezione del mondo non può essere neutrale».
D’accordo. Però se vuole cambiare il mondo perché non fa politica direttamente?
«La politica esprime un mondo assolutamente corrotto, senza luce, né speranze, privo di ideali. Trovo più onesto agire nel campo dell’arte e della cultura: un territorio di libertà assoluta che consente di dire tutto ciò che vogliamo e dobbiamo».
Quindi è l’arte a cambiare il mondo?
«Sì, ma lo cambia una persona alla volta: coloro che si sentono toccati dall’opera – se l’opera riesce a toccarli – cambiano, perché entrano in contatto con un modo nuovo di pensare. La cultura crea modelli che lentamente si diffondono. Noi seminiamo, e la pianta cresce poco a poco. Le faccio un esempio: Obama esiste perché la cultura ha creato Obama prima di lui. Uno scrittore ha scritto un libro con un nero alla Casa Bianca, un gruppo di sceneggiatori ne ha fatto una serie televisiva – si ricorda?
24 con Kiefer Sutherland – poi è arrivata Hollywood con uno o due film, poi un altro romanzo e poi alla fine un presidente nero è stato eletto davvero. Un sogno, un’utopia di un artista diventa realtà».
Però in fondo lei si rivolge al pubblico dell’arte, quello delle gallerie e dei musei, che è una piccola élite politicamente orientata. E che nella stragrande maggioranza è già d’accordo con quello che lei vuole dire. E poi magari vende a collezionisti ricchissimi che la comprano solo perché è di moda. Allora non diventa inutile il suo lavoro?
«È una questione vera quella del pubblico dell’arte. È vero che sta crescendo e si sta espandendo sempre più, ma è comunque un mondo piccolo e un po’ incestuoso e io mi sento un po’ frustrato a stare solo in quell’ambiente. Per questo dedico solo un terzo del mio tempo alle mostre nelle fondazioni, nei musei, nelle gallerie. Un terzo è dedicato invece all’Accademia – ora insegno ad Harvard – e un terzo ad opere pubbliche, che invece parlano a molta più gente».
Per tutto il tempo della conversazione Jaar ha armeggiato con il computer mostrandomi via via le sue opere. Ce n’è un’ultima che ci tiene a farmi vedere: è un bel padiglione di legno e vetri colorati costruito nel giardino di un museo di Dallas, il Nasher sculpture center. È un cubo perfetto, con una sala vuota al suo interno. Sembra soltanto un luogo destinato al riposo, alla calma, alla meditazione. Ma si intitola Musica (Ogni cosa che so l’ho imparata il giorno che mio figlio è nato),
e la magia è che ogni volta che un bambino nasce in tre ospedali della città, il suo vagito viene trasmesso nel padiglione. Non sono tre ospedali qualsiasi: uno è dedicato soprattutto ai migranti e agli illegali, il secondo ai neri e il terzo ai più disagiati. «Ma sa che cosa ho chiesto? Che i genitori dei bambini nati ottenessero una tessera di un anno per entrare nel museo. E i loro figli, addirittura, avranno lo stesso diritto per tutta la vita. In sei mesi abbiamo aumentato di 5mila persone il pubblico del museo. Prima erano quasi tutti bianchi, e benestanti. Ora non più. Abbiamo cambiato la demografia del museo. Vede che l’arte, anche se in piccolo, qualcosa riesce a cambiarla. È un’opera molto bella, ma è la più marxista che abbia fatto».
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