India, ipotesi pena di morte nel rapporto di polizia sui marò
EMMA Bonino si fida della smentita di Syed Akbaruddin, il portavoce del ministero degli Esteri indiano. La possibilità che i due marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone possano essere condannati a morte in India «è stata ufficialmente esclusa dal governo indiano», dice il ministro italiano. Un’altra giornata di confusione e nervosismo attorno al caso dei due marinai arrestati perché accusati di aver ucciso due pescatori indiani nel febbraio del 2012.
Il caso di ieri è stato avviato dalle anticipazioni dei giornali indiani sul rapporto finale che la polizia sta per presentare al giudice. La polizia investigativa indiana (Nia, National investigative agency) ha chiuso i suoi lavori presentando una memoria al ministero dell’Interno. La Nia prevede un’imputazione pesante, che fa riferimento al “Sua Act”, la dura legge anti-pirateria «per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della Navigazione marittima e le strutture fisse sulla piattaforma continentale». Come nota l’Ansa, è l’unica legge che l’India può far valere per affermare la sua competenza legale oltre le sue acque territoriali (l’incidente avvenne a 20 miglia al largo di Kochi, ovvero oltre il limite delle 12 miglia): un ricorso al semplice codice penale potrebbe non essere sufficiente, e togliere il caso alla giurisdizione indiana se lo stesso giudice che lo esaminerà valuterà l’obiezione italiana che il caso è avvenuto in acque extra-territoriali.
All’Hindustan Times i poliziotti della Nia ieri mattina hanno detto che «il nostro ragionamento è che uccidendo i pescatori i marò hanno commesso un atto che ha messo in pericolo la navigazione marittima. E siccome c’è stato omicidio, sono passibili di essere accusati in base ad una legge che prevede la pena di morte». In Italia le notizie da New Delhi sono rimbalzate velocemente, hanno ridestato preoccupazione nelle famiglie dei due marinai, e hanno offerto possibilità a qualche partito di opposizione di attaccare il governo con proposte irrealizzabili: «Rompiamo le relazioni diplomatiche con l’India», dice Fratelli d’Italia, il che a questo punto significherebbe soltanto lasciare i marò senza nessun’altra protezione.
Rapidamente l’inviato del governo italiano Staffan De Mistura ha contattato gli uffici del ministro degli Esteri indiano Kurshid. Dal suo portavoce è arrivata quindi la smentita: il governo di Delhi non prevede che nel momento della formalizzazione dell’accusa verranno evocati articoli che prevedono la pena di morte. «La verità è che ci sono diverse posizioni in India», dice una fonte della Farnesina, «diverse idee da parte del ministero degli Esteri, degli Interni e della stessa Nia rispetto ai dirigenti politici del loro ministero di riferimento». Sempre all’Ansa il portavoce degli Esteri Akbaruddin ha ricordato di fare riferimento alla dichiarazione che il 22 marzo il ministro degli Esteri Salman Khurshid aveva fatto al Parlamento indiano quando l’Italia aveva deciso di non rimandare in India i due sottufficiali. Alla Camera il ministro disse che «secondo una giurisprudenza indiana largamente applicata, questo caso non ricade nella categoria che richiede l’applicazione della pena di morte, e cioè dei casi rari fra i più rari». Per cui concluse Khurshid, «non bisogna avere alcuna preoccupazione a questo proposito ».
Ma la Nia ha capito che senza un riferimento al “Sua Act” il caso sarà molto debole e potrebbe mancare la giurisdizione per tenere il processo in India. Lo stesso ministero degli Interni indiano prima di convalidare un’accusa che si scontrerebbe con la posizione ufficiale di Delhi, avrebbe deciso quindi di consultare l’ufficio del Pubblico ministero, il principale consulente legale del governo. Nel tentativo di smontare il caso così come è stato presentato dagli stessi poliziotti della Nia che rivendicano la loro autonomia investigativa.
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