by Sergio Segio | 29 Novembre 2013 7:21
«NOI saremmo dovuti morire tutti. Negli anni Ottanta se ti infettavi avevi pochissime speranze di vita. I nostri amici se ne andavano uno ad uno, ogni giorno un addio, la strage di una generazione. Invece siamo sopravvissuti. Incredibilmente. Sì, noi siamo i sopravvissuti all’Aids». Era il 1992 quando Rosaria Iardino che allora aveva 25 anni baciò sulla bocca il professor Ferdinando Aiuti.
DIMOSTRÒ così all’Italia terrorizzata (e razzista) che l’Hiv non si trasmetteva né con la saliva, né tantomeno con una stretta di mano.
Oggi a 47 anni, sieropositiva da quando ne aveva 18, Rosaria Iardino è diventata mamma di una bellissima bambina di nome Anita, ed è insieme ad altri centocinquantamila italiani, una “long survivor”, una sopravvissuta. Convive cioè da decenni con la malattia tenendo sotto controllo il virus, grazie ad un cocktail di farmaci che hanno cambiato per sempre il destino delle persone sieropositive. Espulsa a 22 anni dal ristorante dove lavorava come maitre a causa della sua malattia, Rosaria Iardino, oggi consigliere comunale del Pd a Milano, ha spesso raccontato quanto fossero forti le discriminazioni negli anni in cui l’Aids veniva considerato la “peste bianca”, che si diffondeva attraverso sangue e rapporti sessuali.
«Nel 1986 i medici mi dissero che sarei morta entro un anno… Invece ero forte, e ce l’ho fatta a sopravvivere fino a quando nel 1996 sono arrivati gli antiretrovirali, farmaci che hanno cambiato l’esistenza di tutti noi. Oggi se ti curi puoi guardare al di là
della malattia, lavorare, fare progetti. Sono diventata insieme alla mia compagna mamma di Anita, la gravidanza l’ha fatta lei, io ero un po’ troppo grande… Certo non è facile dipendere dai farmaci, il fegato si affatica, ma l’alternativa è ammalarsi. E a me la vita piace. Ma il vero problema oggi è che di Aids non si parla più». Rosaria, Margherita, Paolo, Alessandro. Come soldati scampati ad una guerra dove sul campo sono rimasti amici, compagni, mogli, fidanzati, oggi sono loro, i survivors, a fare informazione nelle scuole, nelle carceri.
Il paradosso della sopravvivenza è proprio questo. Alla vigilia della giornata mondiale contro l’Aids, in Italia si contano quattromila nuove infezioni l’anno, una speranza di vita sempre più lunga, ma anche un muro di silenzio che ormai circonda l’Hiv. «Questo silenzio — aggiunge Stefano Vella, infettivologo, uno dei più importanti esperti di Aids del nostro paese — sta portando a conseguenze gravi. Il serbatoio del contagio non diminuisce, aumenta il numero dei sieropositivi, i giovani ignorano il preservativo, nessuno fa più il test. Chi contrae il virus scopre la propria condizione dopo anni, con il rischio di aver infettato chissà quante altre persone. Di Aids non si muore quasi più, è ormai una malattia cronica, ma è una malattia globale, il maggior centro di contagio, Africa a parte, è nei paesi dell’Est, nel cuore dell’Europa, alle porte dell’Italia. Non possiamo abbassare la guardia».
Paolo P. ha 60 anni, di cui trenta vissuti da sieropositivo. Ma anche due figli, una moglie, un lavoro e una storia simile ad una resurrezione. E c’è l’avventura di una generazione nel suo racconto, che parte dall’incontro con l’eroina, e passa per un viaggio a Londra in una comunità per disintossicarsi, dove Paolo finisce all’ospedale per un herpes e scopre, invece, di avere l’Hiv. «Era il 1984, mi diedero un foglietto e sopra c’era scritto paziente con Aids, sei mesi di vita… In quel momento ho chiuso con la droga, a volte penso che sia stato proprio l’Hiv ad avermi salvato la vita». Paolo torna a Messina ed inizia a curarsi ma è una stagione di lutti ciò che l’attende. «Uno dopo l’altro i miei amici muoiono tutti, nel 1992 distrutta dall’Aids se ne va anche mia moglie. Resto solo, ancora sano, e con un figlio di 12 anni. Un cimitero intorno a me, ma dovevo vivere a tutti i costi. Scopro di avere una carica virale molto bassa, tengo duro fino a quando gli antiretrovirali rivoluzionano la mia vita». Ma la cosa più bella è che Paolo incontra di nuovo l’amore, lei sieronegativa lo sposa, e Paolo diventa padre per la seconda volta, attraverso il lavaggio dello sperma e la fecondazione assistita. «Il Capodanno del Duemila per noi sieropositivi era l’alba che non avremmo visto mai. Invece sono qui».
Era il 1989 quando il ministero della Sanità lanciò la martellante campagna “Aids, se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”. Poi il silenzio. Ferdinando Aiuti, infettivologo e immunologo è la memoria storica della lotta all’Aids in Italia. «Erano anni tremendi. Morivano tutti. Il primo paziente infetto arrivò nel mio istituto nel 1983. Eravamo in trincea. C’era uno spaventoso stigma sociale: i sieropositivi facevano paura, per questo baciai Rosaria. I dentisti si rifiutavano di curarli, i colleghi medici pretendevano camere operatorie separate, la gente licenziata, i bambini espulsi dalle scuole. La cosa più dura era veder morire i bambini. Se pensiamo che oggi di neonati positivi non ne nascono più, che ho pazienti in vita infettati addirittura nell’87, è evidente la rivoluzione
portata dai farmaci. Ma sopravvivere non vuol dire che abbiamo vinto. Si deve tornare al test di massa, soltanto così fermeremo il virus». Margherita Errico, napoletana, ha 35 anni, è presidente di “Nps” Italia, il network di persone sieropositive. Aveva 15 anni quando viene contagiata dal suo fidanzato. «Un’estate, nel ‘93. Lui era uscito dalla comunità, era un soggetto a rischio, ma io ero innamorata. Sì, usavamo il preservativo, ma la mia famiglia non approvava quella relazione, ci nascondevamo, e deve essere accaduto così, per un errore, una leggerezza». È ancora una ragazzina del liceo Margherita quando si accorge di essere ammalata: febbri, linfonodi, il test non lascia dubbi. Il mondo che ti crolla addosso. Di nascosto, «i miei genitori sarebbero stati capaci di ammazzarlo il mio ex», inizia a curarsi, ottenendo dai medici che la seguono la garanzia di non coinvolgere i genitori. «Mi sono laureata, sono diventata interprete, ho avuto amori e relazioni, e sono salva grazie ai farmaci. Oggi mi occupo del network e di fare informazione. I giovani dell’Aids non sanno nulla e rischiano tutto».
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