“Pechino è troppo inquinata” e l’ambasciatore Usa se ne va

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PECHINO. Smog e nostalgia. Ottime ragioni per abbandonare una terra lontana. Non sufficienti però, almeno non fino ad oggi, se a porle sul piatto della bilancia delle decisioni impegnative è il rappresentante diplomatico della prima potenza del mondo, inviato per controllare la crescita della seconda. Invece Gary Locke, primo ambasciatore americano di origini cinesi ad essere atterrato a Pechino, a sorpresa ha annunciato al presidente Barack Obama che con i primi mesi del 2014 considererà conclusa la sua missione asiatica. Un addio anticipato, pur leggermente scortese, non manca di precedenti. Il suo predecessore, il repubblicano Jon Huntsman, nella primavera del 2011 fece rapidamente i bagagli per correre alle primarie delle presidenziali Usa. Casa Bianca: «Ragioni di forza maggiore».
A far scoppiare il caso Locke, non solo in Cina e negli States, intervengono invece ora “ragioni personali” ufficiali e senza precedenti, sul filo del bon ton diplomatico: l’inquinamento record che soffoca la capitale cinese, tale da consigliare la fuga alla famiglia dell’ambasciatore, innescando la sua necessità di invocare il ricongiungimento affettivo. È stata proprio Mona Locke, moglie e di Gary e madre dei loro tre figli, a spiegare lo strappo. «I nostri bambini – ha detto – devono poter uscire di casa e respirare senza paura. E voglio che vadano in una scuola pubblica, che si facciano gli amici della vita, che imparino a rispettare la comunità e ad aiutare gli altri». Nel nome di una vita sostenibile, all’inizio dell’anno, signora e bambini sono così tornati a Seattle, dopo nemmeno due anni nella dorata prigione pechinese, avvolta nei gas tossici. Già allora, ha rivelato il
New York Times, la decisione era presa: papà Gary li avrebbe seguiti a ruota, nel segno della nostalgia e di un amore famigliare superiore alla ragion di Stato.
In Asia, come nel mondo surreale del business e dei maneggi diplomatici, lo stupore è stato grande. Scatenati gli analisti e il popolo del web, uniti nel sospetto che il cuore sia la ruota, non il motore, dell’anticipato viaggio di ritorno della stella dei democratici, primo rappresentante in Oriente di Barack Obama. Domanda più comune sia a Pechino che a Washington: smog e nostalgia, oppure attriti politici e fallimenti commerciali? «Un omogeneo impasto di molti ingredienti», confida un alto funzionario dell’ambasciata Usa in Cina e i fatti degli ultimi mesi lo confermano.
Gary Locke era arrivato nella terra natale degli avi nell’agosto del 2011. Ancora prima di mettere piede a Pechino, per i cinesi
era già una star. Ex segretario americano al commercio, due volte governatore di Washington, 63 anni, fu sorpreso in fila, zaino in spalla e mano nella mano con la figlia, mentre attendeva il suo turno per un caffè in aeroporto. Semplicità impensabile, per un funzionario del partito comunista, antropologicamente incline alla “sindrome dell’imperatore”. Locke poi ci mise subito
del suo, fiondandosi a visitare Taishan, il villaggio del Sud da cui suo nonno prima e suo padre poi erano emigrati per aprire una bottega di alimentari a Washington. «Un cinese in Cina», si spinse a titolare il Quotidiano del popolo, e tutto lasciava presagire, se non uno storico matrimonio del promesso G2, quantomeno un trionfo personale.
Il clima invece, alla vigilia della decennale successione alla guida della Città Proibita, cambiò all’improvviso. L’“ambasciatore qualunque” che piaceva alla gente si è trovato prima alla prese con lo scandalo Bo Xilai, l’ex leader neo-maoista tradito dal braccio destro, riparato nel consolato Usa di Chengdu. Poi è stato investito dalla cinematografica fuga del dissidente cieco Chen Guangcheng, rifugiato nell’ambasciata Usa di Pechino mentre Hillary Clinton atterrava nella capitale e le autorità cinesi, per evitare lo strappo, furono costrette a concedere un visto “di studio” per New York.
La luna di miele era già dimen-ticata: Locke è stato infine travolto dalle tensioni Cina-Giappone per il controllo del Pacifico, dalle inchieste cinesi contro le tangenti pagate dalla multinazionali americane per conquistare il più ricco mercato del pianeta e dalle ultime rivelazioni sulla parentopoli sino-statunitense. «Le nostre relazioni bilaterali – ha ammesso ieri confermando l’addio – sono decisamente complesse, ma il mio rientro anticipato resta ispirato da opportunità strettamente private». Voglia di cieli azzurri e di weekend fuoriporta con la famiglia, miraggi che già mettono in fuga dalla Cina centinaia di manager stranieri, spaventati per la salute dei figli piccoli. Gary Locke lo sapeva anche prima, ma rendere ufficiale che «Pechino oggi è inadatta alla vita umana» pone la l’emergenzasuunlivellodiimbarazzo superiore pure per il partito- Stato. Anche perché la resa di Locke, lasciando vacante la sede estera più importante della Casa Bianca, apre una stagione diplomatica nuova in Asia: una Kennedy a Tokyo, trionfalmente presentata all’imperatore Akihito nel 50esimo anniversario dell’omicidio del padre, e nessuno a Pechino, mentre Xi Jinping intima agli Usa di «ripensare il rapporto tra le due grandi potenze». Cercasi dunque urgentemente ambasciatore americano per la Cina: preferibilmente dotato di maschera a gas e senza famiglia.


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