NELLA CRISI LA SORPRESA È IL WELFARE (NON DI STATO)
In attesa delle riforme dall’alto conviene guardare a quelle che viaggiano dal basso. L’80% delle aziende italiane sopra i 500 addetti ha avviato esperimenti di welfare aziendale e ogni 150 euro investiti hanno portato un guadagno stimato in 300 euro tra risparmi effettivi e aumenti di produttività. In campo assicurativo ormai esistono in Italia 500 fondi integrativi negoziali e volontari e circa 2 mila mutue sanitarie che hanno erogato servizi a più di 5 milioni di persone. Solo le 15 fondazioni di comunità lombarde hanno superato i 22,5 milioni di euro di erogazioni che sono servite a finanziare oltre 2.300 progetti di utilità sociale. Lo scorso anno le fondazioni di origine bancaria hanno deliberato 22 mila interventi in favore dei propri territori per una cifra complessiva di 965 milioni. Sono queste alcune cifre che servono a dimensionare il secondo welfare, il movimento-somma di iniziative associative e filantropiche, sperimentazioni di quasi mercato, intraprendenza dei corpi intermedi/territori, che ha svolto un ruolo importante nell’attutire le conseguenze della crisi. A fotografare le realizzazioni del secondo welfare arriva in questi giorni un Rapporto, curato da Franca Maino e Maurizio Ferrera, frutto di un lavoro (www.secondowelfare.it ) che il Centro Einaudi di Torino ha portato avanti grazie all’apporto di un gruppo di partner (aziende private, fondazioni bancarie, l’Ania) e in collaborazione con il Corriere della Sera .
Il secondo welfare, sostengono, ha già raggiunto una rilevanza economica, finanziaria e occupazionale di tutto rispetto e incide sulle condizioni di vita di milioni di persone. Le sperimentazioni avviate hanno dato vita a compiute realizzazioni che hanno dimostrato di saper far fronte in modo efficiente a bisogni non adeguatamente coperti dal welfare statale. Tutto si è concretizzato grazie a soluzioni innovative sul piano degli strumenti e dell’organizzazione e hanno riguardato anche Comuni e Regioni che hanno razionalizzato i propri modelli di spesa. Certo c’è ancora tantissimo da fare e non solo sul piano quantitativo: le disparità territoriali Nord-Sud sono evidenti, c’è la difficoltà di fare sistema, i meccanismi di monitoraggio e valutazione sono ancora troppo deboli e a volte c’è il rischio di «un incastro distorto e opportunistico tra primo e secondo welfare» ovvero che lo sviluppo di iniziative dal basso divenga l’alibi per non ricalibrare lo Stato-previdenza, per non far rispettare i livelli minimi di servizio su tutto il territorio nazionale. Come è noto i riformisti veri sono impietosi con se stessi e anche il Rapporto lo è, sottolineando limiti strutturali e soggettivi di queste trasformazioni. Guardando avanti e non solo in retrospettiva il lavoro del Centro Einaudi si focalizza poi sul contributo che può dare nel breve il settore assicurativo. L’83% della spesa sanitaria privata è sostenuto direttamente dalle famiglie e solo il 4% è intermediata dalle compagnie di assicurazione. Esiste, dunque, uno spazio molto ampio per l’innovazione sociale, la messa a punto di nuove formule e prodotti, una modernizzazione della tutela degli anziani che darebbe forti risparmi alle famiglie e un maggior numero di servizi e prestazioni a chi ne ha bisogno.
Dario Di Vico
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