«Volete un limite agli stipendi d’oro?» La Svizzera vota sui top manager
MILANO — Se esiste una casta di privilegiati, per gli svizzeri questa è costituita dai banchieri e dai top manager delle multinazionali: e così per la seconda volta in un anno l’elettorato elvetico sarà oggi chiamato a esprimersi su una proposta che intende tagliare — e di molto — gli stipendi d’oro della finanza e dell’industria. La consultazione popolare è stata battezzata col nome di «1:12», formula presto spiegata: se i sì prevarranno, l’amministratore delegato o il presidente di una società potranno intascarsi un appannaggio al massimo 12 volte superiore a quello dei dipendenti di rango più basso.
La sintesi rischia di tradire la realtà: anche se la riforma passasse, le aziende avrebbero comunque la possibilità di pagare benefit e bonus in grado di rimpinguare i compensi ma si tratterebbe comunque di una svolta «pauperista» di notevoli proporzioni visto che oggi i vertici di Nestlé o di Ubs (tanto per citare due colossi dell’economia svizzera) guadagnano 200 e più volte rispetto ai loro impiegati e operai; e vale la pena ricordare che la proposta all’esame del popolo svizzero era il sogno proclamato nell’Italia del boom da Adriano Olivetti secondo il quale la giusta proporzione tra il vertice e la base della scala sociale doveva essere di appena 10 gradini.
Il referendum, che è stato promosso dalla «Gioventù Socialista» svizzera, ha sfruttato i venti di crisi e le incertezze che scuotono la pax elvetica: segreto bancario che vacilla, salari erosi dalla concorrenza dei lavoratori stranieri (italiani in primis), sicurezze sociali messe in discussione. E allora sotto scacco finiscono i privilegi di chi se la passa meglio. La campagna ha assunto toni virulenti specie quando sui muri delle città sono comparsi manifesti in stile western dove banchieri e dirigenti erano ritratti con nome e cognome e stipendio e accostati a dei fuorilegge. A loro veniva contrapposta l’immagine di Reinhard Jossen, piccolo imprenditore, nella cui azienda la forbice salariale non supera quota 1,5; nei manifesti il baffuto Reinhard proclama francescanamente «non c’è niente di meglio per un imprenditore che distribuire la sua ricchezza».
Contro i promotori del referendum sono schierati l’intero establishment economico e i maggiori partiti liberali e conservatori: in caso di vittoria del sì lo spauracchio sbandierato da un lato è che le multinazionali decidano di abbandonare la Confederazione e dall’altro che finiscano licenziati i lavoratori meno pagati (quelli in teoria che la consultazione vorrebbe proteggere) proprio per innalzare la media degli stipendi.
I sondaggi, che inizialmente vedevano l’elettorato svizzero diviso a metà, negli ultimi giorni assegnano un 52% ai contrari alla proposta e solo il 36% ai favorevoli. Da non dimenticare che la nuova legge, per essere approvata, non dovrà ottenere solo la metà più uno dei voti complessivi ma anche la maggioranza in almeno la metà dei cantoni elvetici.
Partita persa in partenza, dunque? Lo schieramento è lo stesso che nel marzo scorso precedette un altro referendum, curiosamente battezzato «contro i gatti grassi», che affrontava anche in quel caso la questione dei superstipendi dei manager. Si chiedeva nell’occasione che i compensi fossero commisurati ai risultati ottenuti (niente più superbonus a chi manda i bilanci in rosso, per intenderci) e che venissero decisi non più dai consigli di amministrazione ma dall’assemblea degli azionisti. La proposta fu approvata dal 68% degli elettori. Il vento anticasta, insomma, soffia anche tra le montagne e le valli della Svizzera.
Claudio Del Frate
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