Libano, è qui la guerra tra Arabia saudita e Iran

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Contro Hezbollah e Tehran si annuncia un’offensiva senza precedenti. Sullo sfondo c’è il conflitto siriano Qualcuno si chiede come mai il Libano non sia ancora sprofondato in una seconda guerra civile. I segnali in effetti ci sono tutti. Gli attentati che hanno causato decine di vittime tra sciiti e sunniti dall’inizio dell’anno l’ultimo appena qualche giorno fa contro l’ambasciata iraniana (25 morti) -, i sanguinosi scontri a fuoco a Tripoli tra sunniti e alawiti (sciiti), le ricadute nei centri abitati nella Valle della Bekaa adiacenti al territorio siriano (in guerra civile), la frattura politica interna aggravata dal mancato accordo per il nuovo governo, senza dimenticare la crisi economica appesantita dall’arrivo di centinaia di migliaia di profughi dalla Siria: si calcola che nel Paese ci sia 1 siriano ogni 4,5 libanesi. La risposta all’interrogativo è lunga e articolata ma, stringendo, il motivo principale è uno: nessuna fazione libanese può affrontare nelle strade del Paese il movimento sciita Hezbollah, ampiamente superiore a qualsiasi forza libanese, esercito incluso, per capacità di combattimento e per le armi che possiede.

«Contro Hezbollah in campo aperto, chiunque andrebbe incontro a una sconfitta sicura», spiega l’analista Fawaz Gerges, direttore del dipartimento mediorientale della London School of Economics. Hezbollah da parte sua non ha alcun intenzione di “sparare il primo colpo” e quindi di offrirsi su di un piatto d’argento a chi l’accusa di aver «aperto la strada del Libano ai jihadisti» dopo aver inviato migliaia di suoi combattenti in Siria, in appoggio all’Esercito governativo, violando la neutralità ufficialmente scelta dal Paese dei Cedri. Accusa che Hezbollah respinge anche perché in Siria combattono altre migliaia di libanesi ma sul fronte opposto, con i jihadisti e qaedisti schierati contro Bashar Assad. Tuttavia il Libano, dopo la Siria, può diventare il terreno privilegiato dell’offensiva che l’Arabia saudita sta conducendo contro il “nemico” Iran in tutta la regione. A maggior ragione dopo il recente mancato attacco statunitense alla Siria e la decisione di Washington di cercare, a Ginevra, un accordo politico sul programma nucleare dell’Iran contro il desiderio di Riyadh (e di Israele) di un’offensiva militare contro Tehran. Tutto ciò mentre, in vari punti del Medio Oriente, Iran e Arabia saudita continuano a combattersi a distanza utilizzando i rispettivi alleati e ad alimentare il millenario conflitto interno all’Islam tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita.

Secondo Elie al Ferzli, analista del quotidiano di Beirut as Safir , Riyadh e i suoi alleati in Libano (fronte «14 marzo») hanno preso «la decisione di portare il conflitto con Teheran a livelli senza precedenti» per ostacolare una soluzione pacifica in Siria oltre che un accordo tra le potenze occidentali con l’Iran sul nucleare. L’Arabia saudita, avverte al Ferzli, non rinuncia al sogno di eliminare totalmente l’influenza dell’Iran in Libano, Siria e Iraq. Per la monarchia Saud il Libano rappresenta l’opportunità giusta per ribaltare le sconfitte politiche e diplomatiche subite in Siria, dove Bashar Assad rimane saldamente in sella, e anche in Iraq. «I sauditi – sostiene al Ferzli – si sono resi conto che devono assumersi la responsabilità di difendere la loro esistenza, data la loro convinzione che l’influenza iraniana starebbe distruggendo ogni speranza di assicurare il futuro della famiglia regnante in Arabia Saudita. «Influisce – aggiunge l’analista anche la crescente diffidenza che Riyadh ha nei confronti del leader sunnita libanese, l’ex premier Saad Hariri, che continua a vivere all’estero, assenza che ha alimentato il senso di impotenza e di risentimento all’interno della comunità sunnita».

Da qui il rafforzamento del ruolo svolto dai predicatori salafiti radicali e il numero crescente di libanesi sunniti che partecipano attivamente alla guerra civile siriana. In questo contesto l’attacco suicida contro l’ambasciata iraniana, rivendicato dal ramo libanese del Battaglione Abdullah Azzam (al Qaeda), organizzazione sostenuta dai sauditi, invia un messaggio più ampio: non solo Hezbollah non è più sicuro nel suo paese ma la capacità del movimento sciita di proteggere i propri alleati iraniani è diminuita. L’attacco contro l’ambasciata è un salto di qualità in un processo di radicalizzazione accompagnato da un graduale inasprimento dei rapporti tra le comunità sunnita e sciita. Sviluppi che segue con attenzione anche Israele. I ricercatori Benedetta Berti e Yoram Schweitzer dell’Inss (The Institute for National Security Studies) di Tel Aviv scrivono che dal punto di vista di Israele, la tensione in corso tra Iran, Hezbollah e la rete jihadista globale «non rappresenta necessariamente uno sviluppo positivo».

L’ultimo attentato a Beirut – spiegano – «mostra in modo chiaro che l’instabilità e l’estremismo possono essere esportati… e che l’ascesa del campo salafita – jihadista, a lungo termine, finirà per creare problemi anche per Israele.


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