Ligresti-Cancellieri, incroci a rischio due famiglie siciliane tra fedeltà e veleni
MILANO — È una storia di siciliani emigrati a Milano quella che in questi giorni sta travolgendo la famiglia Ligresti e la famiglia Peluso, in un affaire che sta minando le fondamenta del governo Letta e la credibilità del suo ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri in Peluso, accusata di essersi adoperata a favore della carcerata Giulia Ligresti. Un abbraccio quantomeno incauto, che trova una spiegazione solo se si inquadra in un contesto più ampio, che ricomprenda tra i protagonisti anche Mediobanca, merchant bank milanese fondata nel 1946 da Enrico Cuccia, anch’egli siciliano trapiantato a Milano. E che mai sarebbe finito sotto i riflettori se i tradimenti non avessero a un certo punto preso il sopravvento sulle amicizie e sui patti occulti, che hanno per anni contraddistinto la storia di queste famiglie. Una storia che il pm milanese Luigi Orsi sta faticosamente, con la sua inchiesta, cercando di ricostruire anche nei suoi aspetti più incoffessabili.
TRA BORSA E IMMOBILI
«La mia avventura è iniziata negli anni ‘50 quando sono arrivato a Milano come ufficiale dell’Aeronautica — racconta Salvatore Ligresti in uno dei tre interrogatori a cui ha accettato di rispondere — . Agli inizi degli anni ‘60 ho lavorato nella progettazione immobiliare e progressivamente ho iniziato a svolgere un’attività imprenditoriale immobiliare. Sono stato agevolato dal fatto di aver conosciuto persone importanti che mi hanno fatto crescere. L’agente di Borsa Aldo Ravelli mi ha aiutato ad acquisire azioni della Liquigas, società allora presieduta dall’avvocato Antonino La Russa (padre di Ignazio, altra famiglia di siciliani trapiantati a Milano negli anni ‘60, ndr.)». Oggi pare abbastanza incredibile constatare quanta strada Ligresti sia riuscito a percorrere grazie alla sua rete di persone collocate nei posti giusti. «Ho anche conosciuto Arcaini — prosegue nel racconto — il presidente di Italcasse che mi ha concesso dei fidi che ho impegnato nella costruzione di un grattacielo a Piacenza. Oltre all’attività di progettazione, agli investimenti in Borsa ed alla costruzione di immobili ho iniziato ad acquisire aree, specialmente nella zona sud di Milano. Io sono un ingegnere e mi occupavo della parte tecnica mentre la parte amministrativa è stata storicamente seguita dai miei collaboratori che lavoravano con Carlo Aloisi, un immobiliarista che era anche presidente della Banca Ibi e dell’Unire, l’associazione degli appassionati
di equitazione».
GAVETTA CON BERLUSCONI
In un ventennio le conoscenze giuste hanno dunque spinto Ligresti a diventare un uomo molto potente, al centro di un crocevia fatto di immobili, rastrellamenti di Borsa, banchieri influenti ed esponenti delle istituzioni in grado di facilitare la sua ascesa. In questo
milieu così blasonato non poteva mancare Silvio Berlusconi. «Ho una particolare consuetudine con Berlusconi, siamo amici di vecchia data, veniamo dalla gavetta e gli incontri sono tanto frequenti quanto informali. Con il presidente Berlusconi si parla di tutto», racconta Salvatore quando gli si chiede di spiegare perché ha interceduto a favore dell’ex presidente dell’Isvap Giannini, accusato di corruzione. Ed è di vecchia data anche il contatto con la famiglia Peluso, che sembra avvenire quasi per caso, nella Milano degli anni ‘70, come descrive Piergiorgio, figlio della Cancellieri, oggi ministro della Giustizia, e di Sebastiano Peluso, nel suo interrogatorio. «Negli anni ‘70 mio padre gestiva una farmacia che si trovava vicina allo studio medico esercitato da Antonino Ligresti. È nata così una conoscenza familiare. Ho avuto rapporti di lavoro con il gruppo Ligresti già nel 1999, quando lavoravo in Mediobanca alle dipendenze
del dott. Pagliaro, mi ero occupato della Premaimm».
LA RETE DI MEDIOBANCA
A quel tempo Salvatore era appena uscito dalla bufera di Tangentopoli, non senza acciacchi. Finì dietro le sbarre per corruzione ma anche durante la detenzione il suo “network” si è attivato. Il tam tam della finanza milanese narra che Cuccia mandò all’avvocato di Salvatore un messaggio da vero siciliano: «A quell’ora affacciati alla finestra e se vedi passare per strada Maranghi (l’ex dg di via Filodrammatici) allora vorrà dire che Mediobanca non ti ha abbandonato ». E così fu. Tocca così a Peluso farsi le ossa da banchiere nel salvataggio immobiliare dei Ligresti e poi dal 2002 nel gruppo Capitalia si imbatte ancora nelle società di Don Salvatore. «In questo periodo
ricordo due operazioni importanti con il gruppo Ligresti: una prima ristrutturazione del debito che il gruppo Sinergia aveva nei confronti di Capitalia e un nuovo finanziamento erogato da Capitalia a Premafin». Mentre Peluso si occupava della parte immobiliare in Mediobanca decidono di sfilare la Fondiaria dalla morsa degli Agnelli e di offrirla in sposa alla Sai di Ligresti. Unica raccomandazione di Maranghi: smetterla con la gestione “tutto in famiglia”.
LA STAGIONE DEI TRADIMENTI
Ma senza Cuccia il patto non regge e comincia la stagione dei tradimenti. É Ligresti il primo a rompere le fila e ad allearsi con le banche di sistema per far fuori Maranghi. Poi cerca la sponda con l’Unicredit di Profumo portando in dote la conoscenza con Berlusconi,
quindi tenta lo sganciamento attraverso l’accordo con la francese Groupama. A Piazzetta Cuccia scatta l’allarme rosso, Ligresti non è più affidabile, bisogna sfilargli la Fonsai (il gioiello) per metterlo in mani più sicure. E chi può essere l’esecutore di una così complessa operazione? Ancora Peluso, che accetta di passare armi e bagagli nella compagnia. Ligresti è contento, pensa di essersi messo in casa uno della sua cerchia, «uno che ha visto crescere fin da bambino », come dice il teste della procura Gismondi. E invece è l’inizio della fine. Il pentolone della galassia Ligresti viene scoperchiato, Peluso figlio lautamente ricompensato per il suo lavoro, con la famiglia di Paternò in galera al completo. È a questo punto che mamma Peluso, diventata ministro, si adopera per segnalare la delicata situazione di salute di Giulia Ligresti. Ma così facendo finisce anch’essa nella bufera. L’ultimo affondo, per il momento, è di Salvatore: il 19 dicembre, dai domici-liari, ricorda al guardasigilli che non è lì per caso: «Mi feci latore del desiderio dell’allora prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione. L’attuale ministro Cancellieri è persona che conosco da moltissimi anni e ciò spiega che mi sia rivolta e che io abbia trasmesso la sua esigenza al presidente Berlusconi. In quel caso la segnalazione ebbe successo perché la Cancellieri rimase a Parma». Ma la ministra smentisce tutta la ricostruzione e resta al suo posto.
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L’OCCASIONE MANCATA
NELL’ITALIA dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent’anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia «comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche», di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po’ amaro.