Sorpresa, ora agli italiani piace la sanità pubblica

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 PER ragioni di “cuore”. È il segno più visibile degli atteggiamenti emersi dal sondaggio condotto da Demos su incarico di ATBV. Un’associazione “professionale” a cui aderiscono medici specialisti di malattie cardiovascolari. L’indagine (i cui risultati verranno presentati oggi a Bologna al convegno nazionale di ATBV) ha analizzato gli orientamenti verso il sistema sanitario tenendo conto dell’esperienza e della percezione della malattia, fra coloro che hanno problemi cardiologici. (Un club di cui anch’io faccio parte.) Ne emerge un legame stretto. L’esperienza della malattia, infatti, influenza direttamente la valutazione dei luoghi e delle figure professionali che caratterizzano la sanità. In senso positivo.
In generale, gli italiani dimostrano un buon grado di soddisfazione circa la propria salute. Oltre il 90% sostiene di sentirsi “abbastanza” o “molto bene”. Tuttavia la paura del male è diffusa. Per primo e soprattutto: incombe il “male oscuro”. Non quello psichico, evocato nel romanzo di Giuseppe Berto. Ma il male che tutti temono. Anche perché lo incontriamo spesso, sempre più spesso. Si aggira intorno a noi. Ed è difficile da curare, ma, soprattutto, da guarire definitivamente. Il tumore. Il cancro. Di cui ammette di aver paura, più che di ogni altra ma-lattia, oltre metà degli intervistati (il 54%). È una paura senza età, senza distinzione di genere e classe. Incombe su tutti. Anche le malattie neuro-psichiatriche (Alzheimer, Parkinson, depressione) preoccupano molto. Soprattutto i più anziani. Ma in misura notevolmente più limitata: 20%. Come, d’altronde, gli ictus: 12%. Mentre l’angoscia suscitata dall’infarto e dalle crisi cardiache riguardano una quota ancor più ristretta. Intorno al
7%. Anche se vengono percepite come un rischio (medio o elevato) da oltre un quarto degli italiani. Senza troppe differenze, dopo i 18 anni. L’esperienza della malattia, comunque, cambia sensibilmente il rapporto con se stessi e la propria salute, come appare evidente se consideriamo l’atteggiamento dei “cardiopatici”. I quali fanno osservare un’attenzione maggiore rispetto al resto della popolazione nei confronti delle cure e della prevenzione. Dopo la crisi cardiaca, infatti, mostrano di aver modificato le loro abitudini e i loro stili di vita, in modo talora significativo. Anzitutto, si sottopongono a controlli ricorrenti. Misurano con regolarità colesterolo e pressione. E smettono di fumare. In misura più ampia delle altre persone. Oltre il 45% di essi si sente “a rischio” di ricadute.
Tuttavia, l’esperienza della malattia non sembra produrre una frattura biografica violenta. Secondo la maggioranza della popolazione, dopo l’infarto, la vita cambia, ma non in modo radicale. Certo, ci sente più insicuri. Ma il corso della vita prosegue, con una maggiore cura di sé. Oltre il 75% della popolazione, infatti, considera i cardiopatici persone che possono vivere un’esistenza normale. Senza troppi problemi. Anche se debbono usare maggiore cautela rispetto agli altri. Nove cardiopatici su dieci, peraltro, affermano di considerare il loro stato di salute «buono». Cioè: come tutti gli altri.
In generale, l’esperienza della malattia rafforza e migliora il rapporto con la struttura sanitaria. Con le figure professionali mediche e paramediche e con le strutture ospedaliere. Ma l’immagine del sistema sanitario appare, comunque, molto positiva, presso tutta la popolazione.
Anche oltre la cerchia di chi ha potuto e dovuto sperimentarne l’utilità. Circa l’80% degli italiani, infatti, esprime un grado di fiducia molto elevato verso i medici — ospedalieri e di famiglia. Verso gli “specialisti” pubblici e privati. Verso gli infermieri. La considerazione cresce, soprattutto, in riferimento al sistema pubblico.
La maggioranza dei cittadini (55%) ritiene, infatti, che la sanità pubblica vada tutelata in modo autonomo e distinto. Senza metterla in concorrenza con quella privata. E senza favorire processi di integrazione. La sanità pubblica, invece, va rafforzata. E lo Stato dovrebbe sostenerla di più perché è “un valore in sé”, come sottolinea gran parte degli italiani. In modo più convinto coloro che hanno fatto ricorso ad essa per motivi di urgenza e necessità.
Alla base di questo giudizio, vi sono ragioni “fondate”: la verifica diretta della qualità, oltre che dell’utilità del servizio. Vi sono, inoltre, valutazioni ampiamente condivise circa l’accessibilità. Perché, se la salute è un diritto di tutti, diventa essenziale che sia, appunto, accessibile a tutti. Dal punto di vista dei costi e dell’accoglienza. Della possibilità di poter essere curati, soprattutto in caso di urgenza. Senza privilegi né distinzioni sociali.
Per contro, il principale vantaggio competitivo riconosciuto alla sanità privata riguarda i tempi lunghi di attesa per le visite, per i referti. L’universalità e l’accessibilità, dunque: le “virtù” del servizio pubblico, rischiano, in questo caso, di divenire “vizi”. Perché rallentano le procedure e le attività maggiormente richieste. Tuttavia, in quest’epoca di incertezza diffusa e in questo Paese, dove lo Stato è guardato con sospetto e con sfiducia, dove le istituzioni suscitano distacco: la sanità pubblica costituisce un buon punto di riferimento. Capace di parlare ancora al “cuore” degli italiani.
Meglio tenerne conto.


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