La fiducia non cancella il vero obiettivo che è il Quirinale

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Rende esplicita la sua volontà di indebolire il premier, che i renziani dicono di non ritenere un alleato e accusano di avere «umiliato il Pd» sul caso Cancellieri. La vera sfida, tuttavia, è a colui che Renzi ritiene, a ragione, il vero regista delle «larghe intese»: il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ostacolo istituzionale allo scioglimento anticipato delle Camere. Lo scontro con Letta è solo uno schermo.
Il tentativo di Renzi è di incrinare l’asse che ha unito in questi anni la sinistra a Napolitano; e che il muro contro muro del dopo elezioni di febbraio ha riproposto come una necessità, per impedire una paralisi nelle votazioni sul presidente della Repubblica e poi per formare un governo. Lavorare al logoramento e alla fine accelerata della coalizione delle «larghe intese» significa in primo luogo tentare di sconfiggere l’equilibrio di sistema creato dal Quirinale; e magari sperare che un capo dello Stato appena rieletto per sette anni prenda atto di un’instabilità contro la quale ha sempre lavorato, e decida un passo indietro. Ma è un calcolo temerario, che dà per scontati rapporti di forza dentro il Pd ancora da costruire e soprattutto da consolidare.
Sottovaluta le capacità di Napolitano e il rischio di una frattura simmetrica e opposta a quella del Pdl berlusconiano. E confida forse troppo nell’«effetto novità» che pure rimane la forza di Renzi. Per accreditare l’idea di fare terra bruciata intorno al vecchio gruppo dirigente, la cosiddetta «rottamazione», la vicenda del ministro della Giustizia può tornare utile. È stato Renzi a insistere più di tutti per le dimissioni; ad avvertire Letta che non gli conveniva «metterci la faccia»; e ad affermare che adesso il governo è più debole: risultato al quale ha contribuito. In Parlamento, ieri mattina, i grillini hanno evocato lui per provocare i deputati del Pd mentre la Cancellieri parlava.
E l’attacco violento di una pattuglia di estremisti dei No-Tav alla sede dei Democratici, ieri pomeriggio a Roma, è stata interpretata da una parte della sinistra come conseguenza di un comportamento troppo cedevole nei confronti di palazzo Chigi; e del Quirinale, attento agli effetti internazionali di un rimpasto o, peggio, di una crisi adesso. Chiedersi che posizioni prenderà un Pd conquistato da Renzi non è, dunque, un quesito ozioso. Massimo D’Alema, scelto e additato come l’anti-rottamatore, ritiene che ogni mossa fa pensare che l’obiettivo del sindaco fiorentino sia l’approdo a Palazzo Chigi; e dunque elezioni anticipate. Certamente la linea di Renzi sta facendo proseliti. Guglielmo Epifani, il segretario uscente, rispecchia la deriva psicologica del partito quando parla di un esecutivo indebolito e chiede «uno scatto». In sostanza ignora le obiezioni del premier e del Quirinale sull’«attacco politico» alla Cancellieri.
Lo stesso Gianni Cuperlo, primo avversario di Renzi nella corda alla segreteria, ritiene che il passo indietro del ministro sarebbe stato opportuno: ha avuto la fiducia solo per senso di responsabilità. Insomma, il Pd soffre le «larghe intese» anche senza Berlusconi, e l’asse col presidente della Repubblica ne risente. E potrebbe risentirne di più alla conclusione delle primarie, sebbene qualcuno veda l’esito ancora incerto. Probabilmente non è così, sebbene siano imprevedibili le conseguenze di una vittoria di Renzi. Fanno riflettere gli insulti politici, e non solo, che si scambiano alcuni candidati; le polemiche e perfino le inchieste aperte dalla magistratura sul tesseramento; e i rumori di fondo su una scissione che una parte dell’apparato lascia filtrare, non si sa quanto strumentalmente. D’altronde, le onde provocate dal declino di Berlusconi non potevano non straripare nei confini avversari.


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