L’Europa tradita dagli intellettuali è minacciata da banalità e cinismo

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MADRID — «L’Europa si è sudamericanizzata». «È diventata terra di populismi e irresponsabilità». Non per un qualche golpe militare, ma per la rinuncia alla propria intelligenza. «La cultura si è fatta spettacolo, si è banalizzata, ha perso la capacità di risvegliare lo spirito critico essenziale in democrazia». Nel vecchio continente «l’Italia è tra i malati più gravi». «Da voi la crisi non è solo economica, è anche morale, di Stato. E la colpa è di Silvio Berlusconi che, con il suo carisma e la simpatia, è capace di affossare ogni tentativo di rinascita».
Come un pendolo, da 50 anni, Mario Vargas Llosa si muove tra America Latina ed Europa. Quando arrivò per la prima volta nel vecchio continente, era un ragazzo con il senso d’inferiorità del cittadino delle repubbliche a sovranità limitata, spaccate da tremenda povertà e oltraggiosa ricchezza. Passò dall’infatuazione per Fidel Castro all’ammirazione per Margaret Thatcher. Negli anni Ottanta, scrittore affermato e uomo maturo, era ormai diventato una mosca bianca tra gli intellettuali del Cono Sur . Gli stava stretta l’idea che per gli americani «di sotto» fossero possibili solo due regimi: la dittatura militare o il marxismo. Divenne uno dei pochi a pensare che privatizzazioni ed economia di mercato fossero la cosa giusta da fare, nonostante la giungla, gli indios e i tropici. Divenne la voce alternativa a Gabriel García Márquez, che, al contrario, restava ancorato alla fede nel modello cubano. Non era una posizione facile quella di Vargas Llosa. Nel 1990 si candidò alle elezioni presidenziali del Perù per un cartello di partiti di destra e il fallimento fu clamoroso. Nel 1994 la Biennale di Venezia non lo volle in giuria perché «al soldo della Cia» e «amico delle dittature». Altri tempi.
Oggi, Vargas Llosa parla con l’autorità del Premio Nobel con il «Corriere» e il «Mundo» sulla crisi europea e il suo ultimo libro, L’eroe discreto (Einaudi), che ne è in qualche modo la nemesi. E, orgoglioso della crescita economica e democratica latinoamericana, attacca, sempre da destra, l’Europa e soprattutto l’Italia.
Vargas Llosa, sotto la sua casa di Madrid ci sono montagne di spazzatura per lo sciopero dei netturbini. La sua porta è blindata per paura dei ladri. Di questi tempi l’Europa assomiglia più al Sudamerica che all’oasi di benessere cui eravamo abituati.
«È vero, l’Europa si è sudamericanizzata, ma curiosamente l’America Latina si è europeizzata. Una volta peruviani, colombiani, centro americani sgomitavano per venire a lavorare qui. Ora sono moltissimi gli europei, spagnoli in testa, che si cercano un futuro nel Cono Sur ».
È finita l’età dell’oro europea?
«No, l’Europa non morirà. È solida, andrà avanti. Certe previsioni terroristiche sono ingiustificate. Certo, non si tornerà a vivere come prima, anche perché prima non potevamo permettercelo, però basterà una drastica marcia indietro e, purtroppo, il pagamento di un alto prezzo per gli errori commessi».
Quali errori?
«L’Europa ha accantonato le proprie idee per applicare ricette sudamericane. Populismo, corruzione, sprechi, vivere al di sopra delle proprie possibilità, cinismo nei confronti della politica, sono caratteristiche del sottosviluppo, eppure hanno avuto il sopravvento in molti Paesi europei. Non tutti, per fortuna. Quelli virtuosi, come la Germania, non hanno sofferto la crisi».
Perché è successo?
«Credo sia un problema culturale. Spendere più di ciò che si guadagna è un’irresponsabilità figlia del populismo, che, a sua volta, significa sacrificare il futuro per il presente. Invece di cercare la causa nel mondo esterno, l’Europa farebbe bene a capire come ha incubato il male che ora la strangola. Indebitarsi in maniera totalmente irresponsabile non è gratis».
Italia e Spagna più di altri.
«Però, mentre la Spagna mi sembra abbia toccato il fondo e cominci a risalire grazie a riforme coraggiose, l’Italia non esce dalla sindrome Berlusconi che sta ancora lì, è la pietra che affonda il Paese. Perché la culla della civiltà occidentale sia politicamente tanto immatura, capace di scegliere sempre l’opzione peggiore, è difficile da capire. Però non è un caso unico. Qual è il Paese più colto dell’Ameria Latina? È l’Argentina, eppure politicamente fa piangere, è una specie di Italia dell’emisfero sud. Lo diceva Camus: la persona più intelligente in un campo può essere la più inetta nell’altro».
In altri tempi gli intellettuali sarebbero riusciti a farsi sentire?
«A volte è meglio che stiano zitti. Si pensi a ciò che dicevano durante la guerra fredda. Difendevano mostruosità, regimi che commettevano le più grandi atrocità della storia, Stalin e Mao. Non intellettuali d’infimo rango, ma di altissimo livello. In Francia Jean-Paul Sartre diceva che “tutti gli anticomunisti sono dei cani” o che “in Urss la libertà di critica è totale”. Non molto diverso da ciò che sosteneva Alberto Moravia, o il guru degli intellettuali italiani, Elio Vittorini, che negò addirittura la pubblicazione al Gattopardo , dicendo che non era conveniente politicamente. C’è una grande responsabilità di quegli intellettuali».
Nel suo discorso per l’accettazione del Nobel, lei però ha parlato di spettacolarizzazione della cultura, non di politicizzazione.
«La banalità ha contribuito molto alla crisi. Se la cultura è solo intrattenimento, perde la capacità di instillare spirito critico. In quel vuoto si installa il cinismo. Se tutto il mondo ruba, nessuno si sente ladro. Se tutti sono corrotti, nessuno si giudica corrotto. Società libere hanno bisogno di spirito critico, di gente che creda di poter cambiare per il meglio e si impegni a farlo».
Lei sta per ricevere il XII Premio internazionale di giornalismo di «El Mundo», ma anche l’informazione è in crisi.
«Se i giornali vivranno o moriranno dipende da noi. Non c’è una legge di natura. Il problema è la domanda crescente di pettegolezzi e frivolezze a cui è difficile resistere, pena il fallimento economico. Anche i media più seri aprono le pagine alle sciocchezze. Pare un peccato veniale, ma fa moltissimo danno, perché se la gente si adagia, si perdono gli anticorpi verso i corrotti e finisce che i ladri risultano simpatici, guasconi che ce la fanno. Proprio come Berlusconi, che è carismatico e simpaticissimo, ma guardate il danno che ha fatto all’Italia».
Il suo ultimo romanzo, «L’eroe discreto», ha per protagonista un peruviano che resiste alla mafia. Ha messo sulla pagina il riscatto morale del Sudamerica, mentre l’Europa si confonde?
«La realtà ha smentito la mitologia dell’anticapitalismo sudamericano, secondo il quale gli indios volevano continuare a vivere nei loro campi a proprietà collettiva in una società idealmente marxista. Invece gli indios sono gente normale, che vuole buone scuole per i figli, ospedali, acqua potabile. Felicito, il mio protagonista, mi è stato ispirato da un vero peruviano, che ha pubblicato una lettera alla mafia dicendo che non avrebbe mai pagato il pizzo. Come il mio piccolo Felicito è quell’imprenditore basco che si ribellò all’Eta, o Roberto Saviano, che ha descritto la camorra e ora è minacciato. C’è una riserva morale ovunque. Speriamo basti» .


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