SARTRE E IL ’68. “NÉ PARTITI NÉ SINDACATI LA LOTTA È DEGLI STUDENTI”

by Sergio Segio | 19 Novembre 2013 10:42

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Dagli avvenimenti di maggio in Francia, e in genere dalle lotte recenti è uscita una critica ai partiti che ne investe non soltanto le scelte ma la struttura. Ne vengono messe in causa non soltanto le degenerazioni (per esempio la burocratizzazione), ma la stessa natura, il concetto di organizzazione politica, di partito. Questa polemica non è stata fruttuosa. In genere ha condotto il movimento a forme di impotenza, tanto da indurlo oggi alla tendenza inversa, cioè a riscoprire in una sua originale purezza la teoria leninista del partito, e ripeterla. […] «In fondo ho tentato di dimostrare che il partito è per rapporto alla massa una realtà necessaria, perché la massa in sé, non possiede neppure una spontaneità. In sé, la massa resta seriale. Inversamente, però, appena il partito diventa istituzione, è — salvo in circostanze eccezionali — reazionario rispetto a ciò che esso stesso sollecita o crea, cioè il gruppo in fusione. In altre parole, il dilemma: spontaneità/partito è un falso problema. […] Ciò detto, cosa rappresenta il partito rispetto alla serie? Certamente un bene, perché impedisce di cadere nella serializzazione completa. I membri di un partito comunista resterebbero anch’essi individui isolati e serializzati, in contiguità l’uno con l’altro, se il partito non li costituisse in gruppo attraverso un legame organico, che permette al comunista di Milano di essere in rapporto con un altro lavoratore comunista di qualsiasi altro Paese. Inoltre, è grazie al partito che si formano nel corso della lotta molti gruppi, perché il partito facilita la comunicazione. Tuttavia rispetto al gruppo in fusione che esso stesso ha contribuito a creare, il partito si trova, di regola, nella duplice condizione di doverlo o assorbire, o rinnegare. Rispetto al gruppo, la cui strutturazione non va mai oltre una sorta di patto reciproco, il partito è molto più fortemente strutturato. Un gruppo si forma a caldo, per esempio, attorno a un obiettivo — “bisogna prendere la Bastiglia, andiamo”; e subito dopo l’azione, i suoi componenti si ritrovano inquieti l’uno rispetto all’altro e cercano di stabilire, nella loro libertà, un legame che sostituisca il legame immediato che era creato dall’azione, cioè una sorta di patto o giuramento, il quale a sua volta tende a costituire un embrione di una serie, a stabilire fra loro un rapporto di contiguità, reificato. È quel che sostengo in Fraternité et terreur.
Il gruppo non va oltre. Il partito invece cresce come un insieme di istituzioni, quindi come un sistema chiuso, appesantito, tendenzialmente sclerotizzato. […] In quanto istituzione, un partito ha un pensiero istituzionalizzato — cioè qualche cosa che si allontana da un pensiero sulla realtà — per riflettere soprattutto la sua propria organizzazione, un ideologismo insomma. Sul suo schema si incanala, deformandosi, anche l’esperienza di lotta; viceversa, il gruppo in fusione pensa l’esperienza così come si presenta, senza mediazione istituzionale. Così il pensiero di un gruppo quando si pensava in grande può essere vago, impossibile da teorizzare, fastidioso — com’erano le idee degli studenti nel 1968 — ma rappresenta un grado di riflessione più vera, perché nessuna istituzione fa da filtro tra l’esperienza e la riflessione sull’esperienza. […]»
Lei afferma, dunque, che il vero luogo della coscienza rivoluzionaria non sono né la classe nella sua immediatezza, né il partito, ma la lotta. Che il partito vive fintanto che è strumento di lotta, mentre, appena diventa istituzione, scambia i mezzi per il fine e diventa fine a sé stesso; d’altra parte la classe non avrebbe coscienza di sé finché non si costituisce in gruppo, e non può costituirsi in gruppo se non in quanto esprime un progetto politico. La contraddizione che lei mette in evidenza può forse risolversi soltanto se si tenta di andare oltre un’impostazione generale del problema e lo si cala nell’immediatezza delle singole situazioni. Insomma non sembra possibile una soluzione metastorica. Vanno piuttosto individuate le condizioni oggettive in cui volta a volta questo dilemma possa trovare una soluzione. Per questo occorrono, a nostro avviso, due condizioni, la prima delle quali è che la classe superi il livello della serialità per diventare effettivamente e interamente soggetto di azione collettiva, capace di egemonia… «
Questa è una condizione impossibile, la classe operaia non può mai esprimersi interamente, come soggetto politico attivo: ci saranno sempre zone o regioni o frange, che per ragioni storiche di sviluppo resteranno serializzate, massificate, estranee a
una presa di coscienza. Un residuo c’è sempre. È ora molto in uso la generalizzazione del concetto di coscienza di classe e di lotta di classe come elementi preesistenti, a priori rispetto alla lotta. A priori non c’è che lo stato oggettivo di sfruttamento della classe. La coscienza nasce soltanto nella lotta; la lotta di classe esiste solo in quanto ci siano luoghi dove effettivamente si combatte. È vero che il proletariato porta in sé la morte della borghesia, è vero che il sistema capitalistico è minato da contraddizioni strutturali e antagoniste; ma questo non comporta necessariamente l’esistenza di una coscienza di classe o di una lotta di classe. Perché ci sia coscienza e lotta occorre che qualcuno si batta. […] Nel maggio, partiti e sindacati non solo non erano al potere, ma non svolsero un ruolo neppur paragonabile. L’elemento che unificò la lotta è qualche cosa che, secondo me, viene da lontano: è un’idea che ci viene dal Vietnam e che gli studenti hanno espresso nella formula “l’imagination au pouvoir”. In altre parole, il campo del possibile è molto più vasto di quel che le classi dominanti ci hanno abituato a credere. Chi avrebbe creduto che un popolo di 14 milioni di contadini poteva tenere testa alla più grande potenza industriale e militare del mondo? Eppure è stato così. Il Vietnam ci ha insegnato che il campo del possibile è enorme, che non bisogna rassegnarsi. Questa è stata la molla della rivolta studentesca e gli operai l’hanno capito. Nella manifestazione in comune del 13 maggio questa idea è diventata, d’improvviso, dominante. Se qualche migliaio di ragazzi occupa le facoltà e tiene in scacco il governo, perché non lo possiamo fare anche noi? Così, dopo il 13 maggio e sulla base di un modello che in quel momento veniva loro dall’esterno, gli operai sono scesi in sciopero e hanno occupato le fabbriche. L’elemento che li mobilitò e unificò non fu una piattaforma rivendicativa: questa venne dopo, a giustificazione dello sciopero, e certo non ne mancavano i motivi. Ma è interessante che le rivendicazioni siano venute dopo, quando le fabbriche erano già state occupate».
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IL LIBRO
Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento (Einaudi, pagg. 241, euro 17,50)

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