by Sergio Segio | 17 Novembre 2013 8:28
Perfino le trasgressioni della deliziosa Hepburn stanno dentro i suoi confini, più avanti vanno alcuni Lubitsch. Resto in guardia perché anche io ne sono stata preda da ragazzina: il «sogno d’amore» analizzato da Lea Melandri è attaccaticcio. Recentemente ho sussultato rivedendo Rebecca, la prima moglie , memore che un tempo mi appassionai per Joan Fontaine e quel lumacone di Laurence Olivier; oggi vorrei che alla sua terza rispostaccia la poverina, invece di tormentarsi, gli avesse mollato una sberla. Qui siamo su un confine minato. Tutta l’ammirazione per Hitchcock non mi impedisce di scorgere il sadismo della coppia Kelly-Stewart nella Finestra sul cortile . Forse siamo alquanto sadici tutti, felici se possiamo catturare e fin mandare a morte il prossimo nel plauso generale.
Se definiamo «inconscio collettivo» alcune pulsioni selvagge, le passioni in senso spinoziano «patite», dobbiamo riconoscere che il cinema vi gioca a fondo, impattando su di noi per il peggio e, più raramente, per il meglio. Nessuna comunicazione è altrettanto potente sulle viscere, nessuna altrettanto suggestiva quindi anche strumento «politico», direttamente o indirettamente, in modo esplicito o insinuante. Cosa che induce a riflettere su quel che definiamo «spontaneo» e «popolare». In verità il cinema rispecchia ma suggerisce, come è proprio dell’immagine, meno capace della parola di scavare in profondità e inoltrarsi nella astrazione, ma imbattibile sotto il profilo emotivo. Alla fine della lunga conversazione con Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, la mia riflessione sul comunicare si è fatta più complessa: non so se sia avvenuto lo stesso ai due miei compagni. La riflessione è quel che resta ai vecchi, mentre essi hanno la fortuna — che si misura tardi — di non esserlo ancora.
Da queste basi si è diramato il nostro scambio di idee e di giudizi. Dopo un’intesa totale sul primo film russo, specie Ejzenštejn (anche se un po’ forzato, mi pare, sul piano della storia e problematica della rivoluzione fino agli anni Trenta) siamo andati differenziandoci su alcuni accenti. Non adoravo Riso amaro , ma non ho considerato liberatoria la Nouvelle Vague: da che cosa ci avrebbe liberati se non dal faticoso «impegno»? Ammiro l’eleganza di Antonioni ma non mi affascina, mi interessa di più Pasolini, malgrado il suo vagheggiare età dell’oro primarie e contadine, che ha fatto strage nelle giovani menti degli anni Ottanta e Novanta, come nei Settanta erano state vampirizzate dalla fabbrica. Resto una figlia dell’epoca industriale. Diversamente dai miei due esperti, ho grande simpatia per Fellini, perché poi ci sono i gusti e le fantasie e gli amarcord di ciascuno. Pasolini era schietto, scorticato e commovente quanto Fellini affabulatore, controllato e ironico; di rado una produzione traduce del tutto la persona. Ho preferito di molto i «realisti» italiani alla stagione prebellica francese, per non parlare di quella postbellica oltrealpina verso la quale sono sicuramente ingiusta. E poi ci sono i (per me) piacevoli ma, pare, assolutamente secondari film inglesi e c’è l’universo americano, che ci seduce come nessun altro anche quando se ne scorge una mediocre tessitura ideologica. In verità il cinema non è soltanto un prodotto del Novecento, ma degli Stati Uniti, anche se con grandi lampi qua e là nel mondo, perché frutto di un meticciato culturale che si coagula a Hollywood, approdo di italiani, ebrei, austriaci, tedeschi e inglesi che vi riparano provenendo da tutte le parti. Essi lo hanno colorato assai diversamente da quel che consideriamo la medietà americana, che è un prodotto complicato sotto la vernice individualista e liberista, che ha conquistato l’egemonia mondiale ben prima della mondializzazione.
Ma non senza fratture e luci: è come se il cinema americano si rapprendesse da varie cucine e spezie, e l’Europa desse il meglio da una certa distanza. Naturalmente Mariuccia e Roberto e io abbiamo un occhio diverso; amiamo incondizionatamente e assieme alcuni grandi come, oltre ai fondatori, gli evergreen Ford e Lubitsch, ieri gli Orson Welles e gli Anthony Mann, oggi il pur sovrabbondante Scorsese. Li vedo e rivedo con gaudio (non finisco mai di rivedere, ogni volta scoprendo questo o quello). Ma diffido grandemente della produzione — spesso gradevole — che ci inondò negli anni Cinquanta, abile esercizio di vero e proprio imperialismo estetico e culturale.
La zuffa fra noi tre si verifica però sul dopo, potremmo farci a pezzi su quelle che giudico inclinazioni alla favola, tipo Guerre stellari , su di esse sono intollerante. Non succede soltanto a Ciotta e Silvestri né con il cinema, c’è in vari campi una pressione a rimuovere il rigore razionale e la complessità della storia a favore di un piacevolmente semplificatorio fantastico. La «mia» lotta di classe, che mi dà ragione di molte cose, viene appiattita in un continuum della psiche umana.
È vero che dell’alienazione operaia, proprio perché tale, non c’è molto da dire e la parabola dei socialismi reali è stata fatale alle sue lotte. Ma l’operazione in corso da trent’anni non è innocente: perfino la presa d’atto del degrado cui l’industrialismo ha sottoposto la natura, è piegata all’incriminazione del movimento operaio, colpevole di «sviluppismo», velleità sciagurata e necessariamente autoritaria di liberarsi dalla proprietà. Più attraente è il ribellismo, anche se finisce male — volete mettere James Dean con, che so, un qualunque Michael Collins — per non dire degli impressionanti androidi, jedi e avatar, semplicisti fantasmi liberati da una tecnologia scatenata? Sfuggono al diluvio ogni tanto alcune produzioni indipendenti, in genere venate di sarcasmo o malinconia, dagli autori poco noti o personaggi a parte come Woody Allen o i meno accattivanti fratelli Coen e altri. Sui quali in genere tutti e tre concordiamo, come sul già sulfureo Clint Eastwood, che amiamo quali che siano le sciocchezze che gli succeda di fare come testimonial politico. Un film si giudica dal film, non accorciamo le distanze fra piani di esperienza. Il cinema, insisto, ne incrocia moltissimi e, felicemente, non li assorbe uno nell’altro, l’ibridazione resta evidente.
Sempre nella conversazione, nel rileggerla e modificarla, Mariuccia e Roberto mi hanno fatto scoprire interi paesaggi sconosciuti, come il Giappone degli anni Venti, che si è aggiunto a meraviglie più tardive, delle quali sapevo un poco, pochissimo: Ozu, naturalmente Kurosawa e prima Mizoguchi. Dell’India sapevo soltanto di Satyajit Ray, mentre di Corea e Iran, come di tutti i cosiddetti paesi terzi, quasi niente, salvo un regista (Kiarostami) e i due o tre titoli sorprendenti che ogni anno sforano il muro occidentale. Ben poco ne approda nella grande distribuzione, restando zona di caccia appunto degli addetti ai lavori. Mi sono chiesta anzi più di una volta se per Mariuccia e Roberto valeva la pena di parlare con una annosa e arrogante comunista, tipica spettatrice di quel che viene distribuito, e per il resto ignorante come una talpa.
Naturalmente Mariuccia e io abbiamo sfiorato l’immagine della donna, di cui il cinema funziona da insuperabile modello. Mariuccia adora le bellissime e cattive da esso coltivate, la pistola puntata sull’uomo di turno, incantato raggirato e un po’ stupido, vedi perfino come si racconta un grande, Orson Welles, nella Signora di Shanghai . Roberto mi ha messa alle corde con alcune sconosciute femministe americane; ma resto di marmo. La diva mi appare sempre un sogno di lui, soggezione al suo fantasma, anche quando qualche splendida malvagia ne trae vendetta. Il cinema è maschio, sedotto e misogino, perpetuo von Sternberg di fronte a Marlene. Le rare Thelma e Louise si liberano per pochi giorni e tirate per i capelli ma finiranno inesorabilmente spiaccicate nel Grand Canyon.
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Generi e maestri del grande schermo
Il testo pubblicato qui sopra è un estratto dall’introduzione scritta da Rossana Rossanda per il suo libro Il film del secolo (Bompiani, pagine 374, e 19). Il volume, in uscita mercoledì 20 novembre, esplora il rapporto tra cinema, politica, società e immaginario collettivo, attraverso una lunga conversazione tra la stessa Rossanda e i due critici cinematografici Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, ai quali la unisce un lunga dimestichezza intellettuale, pur tra rilevanti dissensi, al quotidiano «il manifesto».
Ne scaturisce un «racconto per immagini» del Novecento, che parte dall’avanguardia russa per soffermarsi (tra gli altri) su Buster Keaton, Orson Welles, la Nouvelle Vague, Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini (nella foto). In settimana, sempre di Rossana Rossanda, esce (per Einaudi Stile libero big) anche Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo che raccoglie le interviste della scrittrice e giornalista a venti testimoni del Novecento.
Nata nel 1924 a Pola (in Istria, attualmente Croazia), Rossana Rossanda è stata dirigente del Pci, da cui venne radiata nel 1969 con il gruppo del «manifesto» per le sue posizioni eretiche. Mariuccia Ciotta è stata direttore del quotidiano «il manifesto», mentre Roberto Silvestri ne ha curato il supplemento culturale «Alias». Insieme hanno pubblicato lo scorso anno la raccolta di recensioni Il Ciotta-Silvestri. Cinema (Einaudi Stile libero, pp. VIII-1.312, e 28).
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