Fumi e balle nella città dei rifiuti
Sei milioni di ecoballe dell’emergenza campana in attesa di essere bruciati, gli scarti delle industrie del nord e i fanghi dell’Acna sepolti sotto terra, un campo rom su una discarica. E ora a Giugliano è in arrivo un inceneritore da 316 milioni Salvatore Picone, contadino, è l’unico abitante di Taverna del Re. La sua casa è al centro della discarica
GIUGLIANO (NAPOLI).
Sei milioni di ecoballe da una tonnellata ciascuna, accatastate in piramidi di spazzatura che tre metri di muro in cemento armato e senza feritoie non riescono a nascondere alla vista. All’interno, ronde di custodi-giardinieri curano le strade, sorvegliano che nessuno entri di soppiatto e spruzzano diserbante contro le erbacce. Nel cuore di questa gigantesca discarica nelle campagne di Giugliano vive il contadino Salvatore Picone. È lui l’unico cittadino della “città dei rifiuti” di Taverna del Re.
La megadiscarica gli è cresciuta tutta attorno, ecoballa dopo ecoballa, e man mano che l’emergenza rifiuti si acuiva essa continuava a crescere e Picone a non smuoversi di un millimetro. Pian piano i terreni che coltivava gli sono stati espropriati, e lo stesso è avvenuto ad quattro famiglie. Ma Picone ha resistito fino a ottenere che la sua casa, un’abitazione di tufo che oggi usa come deposito, e un mini-giardino che le sta attorno non gli fossero sottratti. Così oggi vive accerchiato dal muro e dalle piramidi di ecoballe, sulle quali è steso un velo nero che le rende vieppiù inquietanti. L’area è contaminata, e non potrebbe essere altrimenti, però Picone ad andarsene non ci pensa proprio. Non è per donchisciottismo o chissà quale altro fine, bensì per attaccamento alla sua terra: «La mia famiglia vive qui da quattro generazioni, se ne vadano loro», dice. Per offrirmi una panoramica della discarica mi porta sul tetto, pavimentato, dell’abitazione. Da quassù si può guardare agevolmente al di là del muro e osservare le piramidi di ecoballe, una dietro l’altra in perfetta simmetria, a perdita d’occhio ovunque si volti il capo. «Erano i terreni che coltivavo, non mi hanno ancora rimborsato per l’esproprio», sostiene. Arrampicato alla parete di una masseria vicina all’abitazione, un fico d’india selvatico ricorda come sarebbe potuto essere questo posto. «Ho qui ancora dei trattori, però coltivo in un’altra zona, in attesa che tolgano queste ecoballe», dice ancora il “sindaco” della “città dei rifiuti”.
Tecnicamente Picone ha ragione. Quello di Taverna del Re, per quanto gigantesco, è un sito provvisorio. Come tutte le soluzioni temporanee nel nostro Paese, si è però trasformato in un’installazione permanente, un monumento alle scorie della civiltà del consumo. Ma, se pure dovesse essere abbandonato, un giorno, e le ecoballe incenerite come da programma, difficilmente il contadino che mi trovo di fronte potrebbe tornare a coltivare le sue terre: troppo percolato – un liquido maleodorante prodotto dalla decomposizione dei rifiuti – è finito nei terreni e nelle falde acquifere per sperare che tutto torni come prima senza un’adeguata bonifica.
La verità è che le ecoballe rischiano di rimanere lì per sempre, a perenne memoria delle ferite che l’essere umano è in grado di infliggere alla natura. Gli ambientalisti locali hanno calcolato che, se pure si decidesse di bruciarle nel vicino inceneritore di Acerra, utilizzando quest’ultimo al pieno delle sue capacità – 1.267 tonnellate al giorno – si impiegherebbero 4.736 giorni, quasi tredici anni, a smaltire tutta la spazzatura accumulata a Taverna del Re. Ecco perché a pochi chilometri di qui si vuole costruire un nuovo inceneritore, contestato dai cittadini che non ne possono più della monnezza impilata nelle discariche, sotterrata nei campi e – si sospetta – sotto edifici e vecchie fabbriche. Il nuovo impianto dovrebbe nascere al posto di una vecchia centrale Enel, in fondo a una strada in cui il teatrino di prostitute semisvestite e aspiranti clienti ricorda un film di Pappi Corsicato o Pedro Almodòvar. Alle sue spalle si staglia la sagoma del depuratore che in appena quattro mesi mesi dilapidò tutto il capitale speso per costruirlo: diciotto miliardi delle vecchie lire, una media di 150 milioni al giorno, gentilmente offerti dalla Cassa per il Mezzogiorno. A determinarne la chiusura furono le proteste dei cittadini, asfissiati dalla puzza. Ora ci risiamo: per l’inceneritore è prevista una spesa di 316 milioni per la progettazione e la costruzione, più 25 milioni all’anno per 24 anni.
Gli affari della camorra
Un altro valido impedimento a bruciare le balle di Taverna del Re è il loro contenuto. Qui sono stati portati rifiuti urbani provenienti dai sette impianti di Cdr – un acronimo che sta per «Combustibile derivato dai rifiuti» – che raccoglievano i rifiuti dell’intera regione e avrebbero dovuto imballare solo ciò che può finire nell’inceneritore senza appestare l’ambiente. Il condizionale è d’obbligo, visto che, nel periodo “d’oro” dell’emergenza in cui la discarica cresceva di due ettari al giorno, non si faceva troppo caso a quel che vi veniva stoccato, al punto che una buona metà di essa, quella che esonda nel territorio di Villa Literno, è tuttora sotto sequestro giudiziario perché le ecoballe – una delle tante parole ingannatrici che la creatività della nostra politica si diverte a inventare per depistare l’opinione pubblica – contengono ogni genere di rifiuti. Nel 2008 un pentito, Emilio Di Caterino, ha raccontato ai magistrati che il sito di Villa Literno era gestito direttamente dal boss Michele Zagaria, l’«ultimo dei casalesi», la primula rossa del clan, l’uomo che al momento della cattura, nel 2011 dopo sedici anni di latitanza, dopo essersi complimentato con gli agenti, chiese loro di poter fare una doccia prima di essere trasferito in carcere. Per rintracciarlo, i magistrati si erano visti persino abbattere un drone, uno degli aerei senza pilota usati dagli americani nella caccia a talebani e terroristi di Al Qaeda: «È scomparso tra i fuochi di una festa patronale», raccontò un maresciallo dei carabinieri a un incredulo Raffaele Cantone, il magistrato napoletano che, giocando come un gatto con il topo, dopo una lunga caccia riuscirà a spuntarla e racconterà l’episodio nel libro-intervista di Francesco Neri L’ultimo bunker (Garzanti editore). La camorra era riuscita a infiltrarsi in ogni fase del business: dalla fornitura del cemento per la costruzione della gigantesca piazzola a quello dei trasporti delle ecoballe, fino agli impianti di produzione di Cdr, come nel 2007 ha rivelato un altro collaboratore di giustizia, Michele Froncillo.
«Qua dentro c’è di tutto: copertoni, lavatrici. Anche qualche morto», dice Picone con un sorriso che pare alludere a chissà quale altro mistero di cui non è dato conoscere i particolari. Per arrivare nell’énclave in cui vive l’unico cittadino di quest’isola di monnezza bisogna imboccare una stradina sterrata che da un lato costeggia il muro della discarica e dall’altro dei terreni coltivati. È necessario arrivare fino al punto in cui nel muro si apre una breccia, non più larga di un paio di metri, imboccare una stradina sterrata costruita a misura di auto e percorrerla fino in fondo, per un chilometro e mezzo circa, senza lasciarsi vincere dal senso di oppressione che si prova ad andare avanti stretti tra due ali di cemento, come in un cunicolo. Ho incontrato Picone a metà strada. Stava percorrendo la stradina in senso contrario con la sua automobile e siamo rimasti incastrati senza possibilità di manovra, uno di fronte all’altro come i due automobilisti palermitani di Via Castellana Bandiera. Per fortuna, a differenza del film-metafora di Emma Dante, il “padrone di casa” Picone ha accettato di far marcia indietro e di condurmi in visita alla sua oasi.
I fanghi dell’Acna
Per dare l’idea delle dimensioni della mega discarica che raccoglie l’eredità dell’emergenza napoletana dal 2001 al 2009 ci si è sbizzarriti in similitudini: è grande come l’isola di Procida o come 130 stadi di calcio. Ma nel disastro ambientale di Giugliano le ecoballe di Taverna del Re rappresentano quasi il minore dei mali. Nel volgere di poco più di un decennio, la terza città della Campania per popolazione – 110 mila abitanti, vent’anni fa erano la metà – è diventata l’immondezzaio della Campania. Non solo: qui sono finiti, trasportati dai tir dei casalesi, i rifiuti delle industrie di mezzo nord, comprese 31 mila tonnellate di fanghi tossici provenienti dalla famigerata Acna di Cengio.
«Indagini giudiziarie hanno accertato che i rifiuti e il materiale provenienti dall’attività di bonifica del Sin di Cengio sono stati interrati in un’area ricompresa nel territorio di Giugliano, già ampiamente e forse irrimediabilmente compromesso da un punto di vista ambientale», ha messo nero su bianco la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie. Vale a dire che la sistemazione del disastro ambientale provocato dallo stabilimento chimico in provincia di Savona è stata fatta sulla pelle di alcune centinaia di migliaia di cittadini del Mezzogiorno d’Italia e di un territorio famoso, fino ad allora, per la bontà delle sue mele annurche. Anche in questo caso i paragoni si sono sprecati: l’inquinamento della Terra dei veleni è come la peste del Seicento, la Chernobyl campana, e così via dicendo. Il pm napoletano Alessandro Milita aveva detto alla commissione parlamentare: «Si tratta di uno di quei casi in cui una condotta permanente prevede un aggravamento nel corso del tempo, per cui, facendo un parallelismo tra organismo umano e ambiente, può essere soltanto paragonata all’infezione da Aids».
A differenza delle ecoballe di Taverna del Re, i fanghi dell’Acna non si vedono, e neppure le altre 807 mila tonnellate di rifiuti industriali sotterrati, secondo gli inquirenti, in gran quantità in un’area che non è meno gigantesca di quella su cui sono posate le balle pseudo-ecologiche dell’emergenza rifiuti. Siamo nel pieno della Terra dei veleni, parente stretta, e persino più inquinata, di quella dei fuochi. La pianura, da queste parti, è liscia come un campo da biliardo, perciò quelle collinette che spuntano come brufoli sul volto pulito di un adolescente risultano a prima vista sospette. Nella zona denominata ex Resit ce ne sono diverse, tutte sequestrate dalla magistratura. Impiego una decina di minuti ad arrampicarmi su una di queste montagne artificiali. Tra l’erba spuntano pezzi di pneumatici tritati e altri scarti. Su una collina di fronte la terra è scivolata via lasciando scoperto un fianco e mettendo in mostra quel che c’è sotto: un telo nero come quelli che ricoprono le ecoballe di Taverna del Re. Una volta arrivati in cima si può godere una buona panoramica dell’intera area: è tutto un alternarsi di campi coltivati, serre e discariche ricoperte.
«Qui è tutto contaminato, ai contadini è vietato usare l’acqua dei pozzi», mi dice Lucia di Cicco, un’attivista dei comitati che si battono contro l’inceneritore e per la bonifica delle discariche. Ma è un divieto di Pulcinella: in molti continuano a utilizzare i pozzi, sostengono gli attivisti locali. In realtà, l’acqua andrebbe presa da una centrale idrica costruita dal locale Consorzio di bonifica: si trova sul ciglio di un’arteria soprannominata «la strada della vergogna», così detta perché è un susseguirsi ininterrotto di ogni genere di rifiuti, campi rinsecchiti e alberi «con il tumore». Per un centinaio di metri, un telone nasconde alla vista dei passanti una spianata di eternit. Lo chiamano «il burka della monnezza». «È così dal 2008», mi dicono. Nessuno ha mai pensato di rimuoverlo.
La centrale consortile è poco più avanti, sullo stesso lato della strada. Qualcuno ha divelto la porta d’accesso. A terra, inconfondibili palline di mercurio, in gran quantità, provenienti da chissà dove. Se è da qui che dovrebbe arrivare l’acqua non contaminata per le irrigazioni, c’è poco da stare allegri.
Il comune commissariato per mafia
A Masseria del Pozzo mi portano a vedere una fumarola. Da queste parti, un po’ ovunque la terra esala strani miasmi, a ulteriore testimonianza dei veleni che nasconde. «Quando piove qui fuma tutto», mi dice Lucia di Cicco. Il comune di Giugliano è commissariato per infiltrazioni camorristiche: nel mirino sono finite proprio le mancate bonifiche e la gestione dei rifiuti urbani, nonché il business dei lidi marittimi. Oggi però è bel tempo e la terra non fuma granché. Alla fine troviamo una fumarola ai margini di una strada sterrata. A poca distanza giocano alcuni bambini rom del vicino campo nomadi.
Il campo è costruito su una discarica, come una favela filippina, e la cosa non appare costituire un’emergenza umanitaria e neppure sanitaria, a Giugliano. Me ne aveva parlato, qualche tempo fa, padre Alex Zanotelli. Il missionario comboniano trasferitosi al rione Sanità di Napoli dalla baraccopoli di Korogocho aveva denunciato le condizioni terribili in cui vivevano gli abitanti del campo e l’abbandono cui le istituzioni lo avevano consegnato. Non mi pare che qualcuno lo abbia ascoltato.
3 – fine
punto in cui nel muro si apre una breccia, non più larga di un paio di metri, imboccare una stradina sterrata costruita a misura di auto e percorrerla fino in fondo, per un chilometro e mezzo circa, senza lasciarsi vincere dal senso di oppressione che si prova ad andare avanti stretti tra due ali di cemento, come in un cunicolo. Ho incontrato Picone a metà strada. Stava percorrendo la stradina in senso contrario con la sua automobile e siamo rimasti incastrati senza possibilità di manovra, uno di fronte all’altro come i due automobilisti palermitani di Via Castellana Bandiera. Per fortuna, a differenza del film-metafora di Emma Dante, il “padrone di casa” Picone ha accettato di far marcia indietro e di condurmi in visita alla sua oasi. I fanghi dell’Acna Per dare l’idea delle dimensioni della mega discarica che raccoglie l’eredità dell’emergenza napoletana dal 2001 al 2009 ci si è sbizzarriti in similitudini: è grande come l’isola di Procida o come 130 stadi di calcio. Ma nel disastro ambientale di Giugliano le ecoballe di Taverna del Re rappresentano quasi il minore dei mali. Nel volgere di poco più di un decennio, la terza città della Campania per popolazione – 110 mila abitanti, vent’anni fa erano la metà – è diventata l’immondezzaio della Campania. Non solo: qui sono finiti, trasportati dai tir dei casalesi, i rifiuti delle industrie di mezzo nord, comprese 31 mila tonnellate di fanghi tossici provenienti dalla famigerata Acna di Cengio. «Indagini giudiziarie hanno accertato che i rifiuti e il materiale provenienti dall’attività di bonifica del Sin di Cengio sono stati interrati in un’area ricompresa nel territorio di Giugliano, già ampiamente e forse irrimediabilmente compromesso da un punto di vista ambientale», ha messo nero su bianco la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie. Vale a dire che la sistemazione del disastro ambientale provocato dallo stabilimento chimico in provincia di Savona è stata fatta sulla pelle di alcune centinaia di migliaia di cittadini del Mezzogiorno d’Italia e di un territorio famoso, fino ad allora, per la bontà delle sue mele annurche. Anche in questo caso i paragoni si sono sprecati: l’inquinamento della Terra dei veleni è come la peste del Seicento, la Chernobyl campana, e così via dicendo. Il pm napoletano Alessandro Milita aveva detto alla commissione parlamentare: «Si tratta di uno di quei casi in cui una condotta permanente prevede un aggravamento nel corso del tempo, per cui, facendo un parallelismo tra organismo umano e ambiente, può essere soltanto paragonata all’infezione da Aids». A differenza delle ecoballe di Taverna del Re, i fanghi dell’Acna non si vedono, e neppure le altre 807 mila tonnellate di rifiuti industriali sotterrati secondo gli inquirenti, in gran quantità in un’area che non è meno gigantesca di quella su cui sono posate le balle pseudo-ecologiche dell’emergenza rifiuti. Siamo nel pieno della Terra dei veleni, parente stretta, e persino più inquinata, di quella dei fuochi. La pianura, da queste parti, è liscia come un campo da biliardo, perciò quelle collinette che spuntano come brufoli sul volto pulito di un adolescente risultano a prima vista sospette. Nella zona denominata ex Resit ce ne sono diverse, tutte sequestrate dalla magistratura. Impiego una decina di minuti ad arrampicarmi su una di queste montagne artificiali. Tra l’erba spuntano pezzi di pneumatici tritati e altri scarti. Su una collina di fronte la terra è scivolata via lasciando scoperto un fianco e mettendo in mostra quel che c’è sotto: un telo nero come quelli che ricoprono le ecoballe di Taverna del Re. Una volta arrivati in cima si può godere una buona panoramica dell’intera area: è tutto un alternarsi di campi coltivati, serre e discariche ricoperte. «Qui è tutto contaminato, ai contadini è vietato usare l’acqua dei pozzi», mi dice Lucia di Cicco, un’attivista dei comitati che si battono contro l’inceneritore e per la bonifica delle discariche. Ma è un divieto di Pulcinella: in molti continuano a utilizzare i pozzi, sostengono gli attivisti locali. In realtà, l’acqua andrebbe presa da una centrale idrica costruita dal locale Consorzio di bonifica: si trova sul ciglio di un’arteria soprannominata «la strada della vergogna», così detta perché è un susseguirsi ininterrotto di ogni genere di rifiuti, campi rinsecchiti e alberi «con il tumore». Per un centinaio di metri, un telone nasconde alla vista dei passanti una spianata di eternit. Lo chiamano «il burka della monnezza». «È così dal 2008», mi dicono. Nessuno ha mai pensato di rimuoverlo. La centrale consortile è poco più avanti, sullo stesso lato della strada. Qualcuno ha divelto la porta d’accesso. A terra, inconfondibili palline di mercurio, in gran quantità, provenienti da chissà dove. Se è da qui che dovrebbe arrivare l’acqua non contaminata per le irrigazioni, c’è poco da stare allegri. Il comune commissariato per mafia A Masseria del Pozzo mi portano a vedere una fumarola. Da queste parti, un po’ ovunque la terra esala strani miasmi, a ulteriore testimonianza dei veleni che nasconde. «Quando piove qui fuma tutto», mi dice Lucia di Cicco. Il comune di Giugliano è commissariato per infiltrazioni camorristiche: nel mirino sono finite proprio le mancate bonifiche e la gestione dei rifiuti urbani, nonché il business dei lidi marittimi. Oggi però è bel tempo e la terra non fuma granché. Alla fine troviamo una fumarola ai margini di una strada sterrata. A poca distanza giocano alcuni bambini rom del vicino campo nomadi. Il campo è costruito su una discarica, come una favela filippina, e la cosa non appare costituire un’emergenza umanitaria e neppure sanitaria, a Giugliano. Me ne aveva parlato, qualche tempo fa, padre Alex Zanotelli. Il missionario comboniano trasferitosi al rione Sanità di Napoli dalla baraccopoli di Korogocho aveva denunciato le condizioni terribili in cui vivevano gli abitanti del campo e l’abbandono cui le istituzioni lo avevano consegnato. Non mi pare che qualcuno lo abbia ascoltato. 3 – fine
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CHILOMETRI QUADRATI
È la dimensione della «città delle ecoballe» di Taverna del Re, a Giugliano. Per avere un termine di paragone, si tratta di un’estensione analoga a quella dell’isola di Procida.
CONCIMI TOSSICI PER LE VITI
Liquami tossici sarebbero stati sversati anche in alcuni vigneti della Valle del Sabato, al confine tra Sannio e Irpinia. I rifiuti sarebbero stati utilizzati come fertilizzanti su alcuni terreni prima di impiantare vitigni autoctoni. I viticoltori avrebbero usufruito anche di finanziamenti della Comunità europea per l’imprenditoria giovanile. La procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto due filoni d’indagine, nell’ambito delle inchieste Chernobyl e Terra Madre.
QUEI RIFIUTI DA SANTA CROCE SULL’ARNO
Anche la Toscana avrebbe inquinato la Campania. Secondo il pentito Carmine Schiavone i suoi camion con le scorie tossiche partivano dalla Provincia di Massa-Carrara, da Santa Croce sull’Arno, nello specifico. I legami che portavano sostanze inquinanti in Campania passavano anche da Pistoia e Arezzo, come ha scritto il manifesto qualche giorno fa e hanno accertato sette inchieste.
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