La civiltà della guerra che il ministro Mauro chiama «pace»

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Gli iracheni lo avranno capito? Non lo crediamo. L’invasione anglo-americana e le successive «missioni di pace» hanno aperto la strada in Iraq al bagno di sangue in cui l’Iraq è ancora immerso da dieci anni. Ovvio, l’Italia non ha le responsabilità maggiori di quella situazione, tuttavia sostenere, come fa il ministro Mauro, che i soldati italiani in Iraq andarono per portare la pace fa quanto meno sorridere. Facevamo parte di uno schieramento dei volenterosi con i quali si mobilitò subito il governo Berlusconi ossequiente a George W. Bush, per una guerra inventata di sana pianta per armi di distruzione di massa che non c’erano.
L’Iraq post Saddam Hussein «costruito» dagli americani e dai governi occidentali è costato la vita di 460.800 persone, secondo ricerca pubblicata sul giornale Plos Medicine che tiene conto anche delle morti figlie di cattive condizioni igieniche, della fame, delle malattie non curate per mancanza di strutture adeguate. Un precedente studio del gruppo Iraq Body Count aveva invece calcolato in 115.000 i morti, facendo riferimento solo ai decessi avvenuti nelle violenze. Dall’inizio dell’anno la guerra civile è ripresa a ritmo sostenuto e al Qaeda è tornata a dettare legge nelle strade. Dall’inizio del 2013 inoltre hanno perduto la vita almeno 5.500 persone, in maggioranza civili. Il mese di ottobre ha segnato un altro tragico record negativo: 964 morti, il numero più alto in un solo mese dall’aprile del 2008. Dov’è la pace che avremmo portato?
Ma a proposito dell’Iraq, così come dell’Afghanistan, ci ripetono che i militari occidentali, inclusi quelli italiani, hanno contribuito alla civiltà (ma il ministro Mauro si ricorda di Abu Ghraib?),alla ripresa del Paese, all’istruzione, al progresso sociale e all’attuazione dei diritti delle donne. Nel 2004 il presidente americano George W. Bush, dichiarò durante un incontro alla Casa Bianca che le donne in Iraq vivevano in condizioni migliori grazie alla chiusura delle «stanze della tortura di Saddam Hussein». In realtà dieci anni dopo, le donne irachene sono colpite duramente da ogni tipo di violenza. La prostituzione e gli abusi in famiglia stanno diventando la regola, l’analfabetismo cresce e migliaia di donne rimaste vedove sono prive di protezione sociale. Il loro ruolo nella vita pubblica è marginale. Un tempo all’avanguardia nel mondo arabo per i diritti assicurati alle donne, oggi l’Iraq è 21esimo su 22 Paesi in questa particolare classifica. E le cose vanno sempre peggio. Se nel primo governo del dopo Saddam Hussein figuravano sei ministre, nell’esecutivo attuale, guidato da Nour al Maliki, c’è soltanto una donna. Va meglio nel Kurdistan dove il governo regionale nel 2011 ha avviato una legge contro la violenza domestica, i delitti d’onore e le mutilazioni genitali; ma è ancora poco per parlare di svolta, dicono le attiviste che chiedono l’adozione di politiche più incisive e l’approvazione di nuove leggi.
Il male che sta uccidendo l’Iraq è il settarismo e il premier Maliki non sembra avere tempo per i diritti delle donne. Non ha favorito l’apertura di un vero dialogo tra sunniti e sciiti. Da oltre un anno la minoranza sunnita protesta contro il governo, sull’onda anche di ciò che accade in Siria.
La risposta di Baghdad sino ad oggi è stata la repressione di qualsiasi forma di opposizione. La polizia lancia raid continui nei quartieri sunniti, alimentando la tensione, e i centri per i diritti umani accusano le autorità di fa uso della tortura per ottenere confessioni su cui si basano sentenze di condanna a morte. Senza dimenticare che accanto alle stragi di al Qaeda ci sono i crimini commessi dalle milizie legate al governo che «proteggono» gli sciiti dagli attacchi degli estremisti sunniti. Di fronte a tutto questo l’Occidente chiude gli occhi e non mancano occasione per vendere armi al governo iracheno.


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