Nella città che non c’è più

by Sergio Segio | 13 Novembre 2013 7:56

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GUIUAN. L’arrivo del rumoroso C-130 sulla pista circondata di palme di cocco piegate dal vento senza più colore né forma è accolto da volti compassati, dignitosi. All’aeroporto militare in attesa dei primi viveri, una folla muta divisa a gruppi se ne sta in ordine e in piedi dietro inferriate di filo spinato o sotto i cornicioni pericolanti di una ex sala d’attesa che non ha più mura né finestre. È una piccola rappresentanza dell’umanità dolente, che si aggira da cinque giorni tra le macerie di questa piccola città di pescatori alla ricerca di qualsiasi cosa che possa placare la fame.
Gli abitanti di Guiuan sono stati i primi cittadini delle Filippine a sperimentare all’alba di venerdì il potere terrificante del tifone ribattezzato qui Yolanda, con i suoi 300 km orari di potenza ancora intatta scagliata a terra dal cuore dell’oceano. Erano anche i più preparati, con decine di rifugi di cemento distribuiti in tutti i 16 barangay, o rioni cittadini dove si erano raccolti in preghiera ma senza aspettarsi ciò che stava per succedere.

Perfino dentro questi ripari il tifone ha scoperchiato i tetti e li ha fatti crollare sulle teste degli sfollati.
Anche se le vittime ufficiali sono poco più di 80 e i dispersi una trentina, i conti non sono ancora fatti, mentre lo stesso lutto per i propri cari passa in secondo piano rispetto all’esigenza di restare in vita. Dal giorno del vento che ha spazzato via una città intera, la gente ha finito le poche riserve di pesce fresco e non può tornare più a mare. Certo perché ne ha paura, ma soprattutto perché le barche che davano da vivere a metà della popolazione — l’altra metà coltivava gli alberi di cocco ormai decimati e deformi — sono distrutte e non si distinguono più nella marmellata informe e piatta di fango, travi, tegole, tronchi di palme, un luogo maledetto e mefitico dove si ergono rovine di cattedrali un tempo stracolme di fedeli, i resti dell’ospedale che avrebbe dovuto curare i feriti, e le mura sfondate delle case di mattoni dove ancora vivono senza un tetto i superstiti.
Da quando Guiuan è diventata lo spettro di una città, questo è il secondo volo militare con i viveri, quasi tutto riso, poco per 50mila abitanti «affamati al cento per cento», come dice il giovane sindaco Christopher Sheen Gonzales. Nella speranza di una ciotola di cibo e un po’ d’acqua, chi è giunto fin qui attraversando le macerie non fa più caso nemmeno alla pioggia. Sono uomini magri e pensierosi, donne con i bambini in braccio punti da miriadi di insetti circondate da altri figli silenziosi come adulti mentre vanno avanti e indietro tra le pozzanghere, intimiditi dalle uniformi dei soldati. Li osservano scaricare sacchi dalla grande bocca della balena verde dell’Air Force filippino mentre nessuno tenta di assaltare le provviste come hanno fatto nella vicina e quattro volte più grande Tacloban, sull’isola di Leyte. Il motivo di tanta compostezza è intuibile dalle canne dei fucili dei soldati, e dalle bombo-lette di gas lacrimogeno che spuntano dalle cartucciere pronte in caso di rivolta.
Dopo cinque giorni di fame e di sete la gente vuole credere che le preghiere siano state esaudite con l’arrivo degli aiuti. Ma una ragazza in perfetto inglese ci spiega che non sarà facile cucinare quel riso, perché «non ci sono fiammiferi e non c’è abbastanza legna secca per fare il fuoco, non ci sono le pentole o utensili».
Marisa Gonzales, nata nell’anno di un tifone che a quel tempo si chiamava Bagyo Undan, era la titolare di una delle imprese più redditizie dell’isola di Samar, la stazione degli autobus che portavano la gente di Guiuan nei villaggi dell’interno e della costa. Era stato l’inizio di una piccola rivoluzione capace di aggiungere il commercio alle attività della pesca e del cocco. Ora non ci sono più bus e non ci sono pesci né cocchi, e nemmeno le strade, né la stazione. Marisa allora ha deciso di salire sull’aereo, per cercare al fratello down una sistemazione dai parenti a Manila, e magari un lavoro o un aiuto economico per ricominciare. Lei a Guiuan non rimetterebbe più piede. Ma suo marito, ferito dal crollo di un tetto, vuole ricostruire la casa nello stesso posto, nonostante il rischio di 20 tifoni l’anno — anzi 25 da gennaio a novembre, e un altro per fortuna più debole di Yolanda in arrivo col nome di Zoraida.
Il sindaco ci spiega che se ad accogliere i viveri e salutare chi parte a bordo del C-130 non c’è una grande folla, è perché molti non hanno nemmeno la forza di fare le poche centinaia di metri fino all’aeroporto. «Ma se potessero partirebbero tutti», assicura il primo cittadino di una città che non c’è più. Dice di averlo capito quando ha fatto scavare le fosse comuni per le vittime di venerdì e i preti hanno recitato le messe anche per quanti sono stati inghiottiti dal mare e coloro ancora intrappolati sotto i detriti. Da allora vive con la sensazione che i corpi possano essere ovunque, che ci si cammini sopra e attorno, con l’odore di morte frammisto al tanfo degli acquitrini lasciati da Yolanda tra foglie e tronchi di alberi in decomposizione.
Tra la gente in attesa di imbarcarsi nel ventre del C-130 verso una nuova vita, c’è una donna anziana e corpulenta trasportata su una sedia a rotelle. Tossisce senza sosta ed è scossa da conati di vomito. La giovane che l’accompagna dice che sua zia fa così da quando c’è stato il ciclone. «Crede che il fango che ha ingoiato quando è caduta trascinata dal vento non andrà più via dalla sua bocca e dalla pancia. Non è vero, ma ormai non sappiamo come farle cambiare idea». Altri che finiranno come lei in un centro psichiatrico nella base militare non hanno nessun sintomo apparente se non lo sguardo perso nel vuoto e le lacrime agli occhi.
Quando il portellone dell’aereo si chiude e si fa buio nella enorme stiva gremita di profughi, i vapori densi dell’aria condizionata creano l’effetto di un girone dantesco con 150 persone di ogni età e sesso stipate, ognuna con impresso nel viso un diverso tipo di dolore, di rimorso ma anche di diffidenza. Infatti bande di razziatori si aggirano a cercare il cibo nelle case, e perfino a rubare le poche assi di legno e i mattoni dagli scheletri delle abitazioni distrutte.
Marisa il giorno prima di partire è stata derubata di una delle due bottiglie d’acqua acquistate in uno dei pochi negozi diroccati che ne aveva una scorta. «Stavo portandole a casa quando un uomo me ne ha presa una di mano scappando via».
A Cebu, atterrato l’aereo, i profughi entrano in silenzio come sono partiti dentro un’enorme palestra dell’esercito, dove giovani volontari in eleganti uniformi bianche trascrivono i nomi dei passeggeri e offrono spring roll e riso. Molti mangiano in circolo sempre senza parlare, altri cercano di far funzionare i telefonini rimasti spenti dal giorno della tragedia. Qui passeranno la notte e qualcuno andrà poi a Manila, in attesa magari di un lavoro all’estero come i genitori e i nonni. Pochi sanno meglio di loro perché da generazioni i filippini abbandonano le loro terre. Adesso lo sa anche il resto del mondo.

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