LA LEGGE DI STABILITÀ NELLA POLVERIERA

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Come sempre in questi casi, ci si azzuffa per qualche briciola mentre il conflitto distributivo latente può esplodere da un momento all’altro. Come in Argentina negli anni ’80, come in Turchia all’inizio del nuovo millennio, come in Grecia più di recente.

Ma anche senza andare tanto lontano, per capire in che situazione ci troviamo basta ricordarsi il significato del voto politico di 9 mesi fa, quella protesta generalizzata, interclassista, poco ideologizzata, ma fortemente caratterizzata dal voto giovanile, che ha portato al successo del movimento di Beppe Grillo. Bene anche prendere atto del fatto che le istituzioni che dovrebbero mediare lo scontro più forte, quello che si consuma tra il lavoro e la disoccupazione, hanno perso talmente rappresentatività da non riuscire più a gestire il conflitto. Lo ammettono gli stessi leader del sindacato.
In queste condizioni il governo e le nostre istituzioni rappresentative dovrebbero preoccuparsi prioritariamente di ricostruire le fila di un contratto sociale in via di sgretolamento, a partire dal cercare di riguadagnarsi la fiducia dei cittadini. Lo spettacolo invece è disarmante. Tre esempi ne sono la testimonianza.
Sono più di 3000 gli emendamenti alla Legge di Stabilità presentati alla Commissione Bilancio del Senato. Ancora più del loro numero colpisce il fatto che per due terzi provengano dalle file della maggioranza, un segno evidente della sua incapacità di stabilire priorità. Ma quei 3093 emendamenti mettono anche in luce come la classe politica cerchi di capitalizzare sul conflitto
distributivo: in una manovra quasi a saldo zero, danno qualcosina a qualcuno per toglierla a qualcun altro. Le redistribuzioni sono minime e poco trasparenti, lasciando aperto il sospetto che anche i presunti beneficiari alla fine ci perdano. Nel frattempo sono finiti i soldi per la Cassa Integrazione in deroga. Questi ammortizzatori devono essere riformati perché funzionano malissimo, ma non ci si può permettere di lasciare senza alcuna copertura chi perde il lavoro. Invece le energie del governo sono assorbite da un altro problema: trovare la “quadra” sulla tassazione degli immobili. L’accordo che si profila all’orizzonte prevede che la nuova tassa sui servizi, la cosiddetta Tasi 1) garantisca lo stesso gettito dell’Imu 2) abbia gli stessi effetti distributivi dell’Imu e 3) conceda gli stessi spazi di manovra ai municipi… dell’Imu. Il tutto ovviamente chiamandosi Tasi e non più Imu. Gli italiani hanno tutto il diritto di sentirsi presi in giro.
Il secondo esempio ha a che vedere coi costi della politica. Non solo nulla è stato fatto in questi anni di crisi per ridurli, ma si è cercato ulteriormente di occultarli agli occhi dell’opinione pubblica. Il Senato non ha ancora reso pubblico il proprio bilancio consuntivo 2012, né il preventivo 2013. La Camera dei Deputati lo ha fatto solo da poche settimane e, come documentato da Roberto Perotti su lavoce.info, ha aumentato le proprie spese sostenendo di fare esattamente il contrario. La Corte Costituzionale, come mostrato sempre da Perotti, continua a garantirsi privilegi che non hanno eguali in alcuna democrazia rappresentativa. Spendiamo, ad esempio, 750 euro al giorno per ogni singolo giudice della Corte solo per garantirgli un’auto blu. Gli ex-giudici in pensione e superstiti ricevono, in media, un assegno di 200.000 euro. Non stupisce che abbiano dichiarato incostituzionale il taglio alle pensioni d’oro, il che ci porta al terzo esempio.
Il dibattito pubblico in corso sui tagli alle cosiddette pensioni d’oro preoccupa per la sua grossolanità. Stiamo trattando del caposaldo del patto fra generazioni su cui si regge una società. I giovani versano contributi per pagare le pensioni agli attuali pensionati nell’attesa di venire poi trattati allo stesso modo. È un equilibrio molto fragile. Se si vuole intervenire su trattamenti pensionistici in essere bisogna farlo nel segno dell’equità, non certo della punizione nei confronti di chi ha versato contributi per un’intera vita lavorativa. Si tratta quindi di procedere con riduzioni marginali, al massimo del 5 per cento, dei trattamenti riservati a chi oggi soddisfa due condizioni: ricevere pensioni molto più alte dei contributi versati durante la propria carriera lavorativa e cumulare fra di loro trattamenti superiori ad una soglia minima (perché è giusto a garantire un reddito minimo a chi non può più lavorare e non è riuscito a maturare i requisiti per una pensione piena). Ci sono molti casi di questo tipo: come messo in luce dal Rapporto della Commissione Brambilla, i ministeriali e i dipendenti degli enti locali andati in pensione a 58 anni col sistema retributivo ricevono in genere trattamenti tre volte superiori ai contributi versati. Molti artigiani e commercianti sono andati in pensione con premi del 750 e del 500 per cento, rispettivamente, rispetto a quanto da loro versato. A queste persone, che l’Inps può identificare senza margini di errore, è giusto chiedere oggi un contributo basato sul principio che chi ha avuto di più, dovrebbe dare di più. Ma nel dibattito pubblico, negli show televisivi, persino nelle simulazioni dei tecnici dei partiti si fa tutt’altro: si procede a tagliare di qua e di là, in modo indiscriminato, chi ha pensioni alte. Attenzione perché dietro a quelle spese tagliate con l’accetta ci sono delle persone. E chi oggi versa i contributi elevati si ricorderà di come sono stati trattati anche lavoratori che hanno ricevuto pensioni non lontane dai contributi versati lungo un’intera carriera lavorativa, senza mai evadere tasse e contributi.
È molto difficile governare il conflitto distributivo in condizioni di crisi. Purtroppo non possiamo permetterci di aspettare la crescita per affrontarlo. Anche perché un paese in cui nessuno si fida dell’altro difficilmente tornerà a crescere in modo duraturo. Evitiamo almeno di scherzare col fuoco.


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