La fine degli «autonomi»

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In sei anni sono scomparsi oltre 400 mila lavoratori indipendenti. La situazione più grave è nel Nordovest La crisi ha travolto anche i lavoratori indipendenti. Per loro che svolgono mansioni individuali, per un cliente o conto terzi, erogano servizi, talvolta creano micro-impresa, ma soprattutto lavorano con la partita Iva non si muovono i sindacati. Il governo non convoca tavoli di crisi. Non rientrano nella grande impresa e nemmeno nel lavoro dipendente tipicamente subordinato. Restano nell’ombra, mentre si spendono miliardi per sostenere il reddito di tutte le altre componenti del lavoro dipendente o quello delle imprese.
La Cgia di Mestre ha provato ieri a dare un profilo a quello che non è un fantasma, ma uno degli attori dell’economia italiana. Dal 2008 a giugno 2013, 400 mila lavoratori indipendenti hanno cessato l’attività. In cinque anni e mezzo di crisi la contrazione è stata del 6,7% su un totale di 5,559 milioni di lavoratori a partita Iva. Ogni 100 lavoratori autonomi, 7,2 hanno cessato l’attività. La crisi è acutissima nel Nordovest dove gli autonomi senza lavoro sono il 7,9%. «Tranne i collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum – ha affermato Giuseppe Bortolussi, segretario Cgia – le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione. Spesso si ritrovano solo con molti debiti e un futuro tutto da inventare».
I più colpiti sono i lavoratori autonomi di «prima generazione», cioè gli artigiani, i commercianti e gli agricoltori. In poco più di un lustro sono diminuiti di 357 mila unità (-9,9%). Colpito anche il settore del lavoro di cura, altro pilastro del lavoro indipendente. 78 mila «collaboratori familiari», molto spesso donne e straniere, hanno perso il lavoro (-19,4%). Anche i collaboratori occasionali o a progetto sono diminuiti di 56 mila unità (-12%). Gli indipendenti che sono riusciti a mettersi a capo di un’impresa con dipendenti sono scesi di 37 mila unità (-12,9%).
E’ interessante soffermarsi anche su un altro dato apparentemente contro-corrente: l’aumento delle partite Iva tra i liberi professionisti. Nella crisi il numero degli iscritti agli ordini e ai collegi professionali sono aumentati di 125 mila unità (+10,7%), come anche tra i soci delle cooperative (+ 2 mila, pari al +6,2%). Si tratta di un lavoro cognitivo e immateriale, il cosiddetto lavoro autonomo di «seconda generazione».
Sono sempre di più i laureati che aprono una partita Iva e si augurano di avere raggiunto l’ultima spiaggia contro la disoccupazione, o l’inoccupazione. Questi trenta-quarantenni si trovano ad affrontare – senza mezzi e indebitandosi – i costi dell’iscrizione ad un ordine professionale (previdenza, formazione ecc). Per la prima volta nella recente storia del lavoro autonomo, nel 2012 le partite Iva aperte nelle professioni cosiddette «cognitive» (tecniche, relazionali, creative o scientifiche) hanno superato quelle aperte nei settori «primari» del lavoro autonomo, più diffusi.
La Cgia ha così registrato il fenomeno definito come lavoro autonomo di «terza generazione». È il risultato dell’esodo forzato verso il lavoro indipendente da parte dei dipendenti o di coloro che sono stabilmente precari. Si diventa lavoratori autonomi, o freelance, a causa della distruzione dei posti di lavoro operata dalla crisi, ma anche per la situazione di ristagno del terziario avanzato di cui queste figure sono il prodotto.
Questo processo andrebbe intersecato con la fuga delle partite Iva dalla gestione separata dell’Inps. Oggi versano il 27% del loro reddito alla previdenza, più contributi di ogni altro contribuente autonomo. I commercianti o gli artigiani pagheranno il 24% fra sei anni. L’aliquota arriverà al 33% nel 2018. Con un reddito medio netto di 753 euro al mese, si capisce perché – tra il 2011 e il 2012 – 21 mila partite Iva e 42 mila para-subordinati hanno lasciato la gestione separata, «emigrando» verso altre casse. La partita Iva potrebbe essere una risorsa, ma ogni anno presenta un conto salato.
Secondo Bortolussi il loro aumento nei settori immateriali potrebbe essere dovuto anche all’incremento delle «false partite Iva». Questa tendenza, diffusa nella pubblica amministrazione, oggi dovrebbe essere ridimensionata. Secondo l’osservatorio sul Lavoro Atipico e i dati della Consulta del lavoro professionale della Cgil, il fenomeno dell’abuso nel lavoro autonomo individuale è inferiore al 10%. Per le partite Iva monocommittenti parliamo del 3,38% sul totale degli autonomi individuali. Tra i pluricommittenti la quota si attesta sull’11%.


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