«Ma l’America con gli ayatollah non ha una strategia»

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NEW YORK — Mesi di colloqui preparatori riservati, il Tesoro Usa che si mostra meno severo nell’applicazione delle sanzioni economiche contro l’Iran dal giorno dell’elezione di Hassan Rouhani, il 14 giugno scorso. Il ritmo incalzante dei negoziati dopo le aperture del presidente iraniano a New York, nei giorni dell’assemblea dell’Onu e dopo il suo colloquio telefonico con Barack Obama. E, ora, il tentativo di raggiungere una prima intesa a Ginevra.
Cambiamenti straordinari e sorprendenti che nessuno, ancora sei mesi fa, avrebbe mai immaginato. Ma Vali Nasr, profondo conoscitore dell’Iran e dei suoi difficili rapporti con l’Occidente, frena: «Non creiamo leggende sui negoziati. Ad alcuni incontri preparatori ho partecipato anch’io e non ho visto svolte clamorose: è un processo complicato, molto graduale. Aspetto ancora di capire fin dove è disposta a spingersi Teheran con le concessioni. Ma, soprattutto, non vedo un piano Usa preciso e ben articolato. Quando Richard Nixon andò in Cina c’era dietro una strategia chiara, con precisi obiettivi di lungo termine. Washington sapeva dove voleva arrivare. Non si può dire la stessa cosa oggi nei confronti dell’Iran».
Nato e cresciuto in Iran, emigrato in America dopo la rivoluzione khomeinista, oggi rettore della Scuola di Studi internazionali della John Hopkins University, Vali Nasr ha lavorato a lungo al Dipartimento di Stato (soprattutto su Pakistan e Afghanistan insieme a Richard Holbrooke), e ha scritto molti saggi. Nell’ultimo, «The Dispensabile Nation», critica il basso profilo della politica estera Usa nell’era di Obama. E anche oggi, sull’Iran, Nasr non riesce a vedere un vero progetto politico della Casa Bianca.
Il premier israeliano Netanyahu furibondo, l’Arabia Saudita e gli emirati sunniti del Golfo molto preoccupati. Aprendo a Teheran, gli Stati Uniti mettono in pericolo il rapporto coi loro alleati in Medio Oriente: lo fanno perché pensano che siamo pericolosamente vicini a una guerra o vogliono ridisegnare la mappa politica dell’area riconoscendo un ruolo di potenza nel Golfo a un Iran che adesso si propone come un interlocutore affidabile e promette di diventare un fattore di stabilità nell’area?
«Per Obama l’unico vero problema, quando negozia con Teheran, è Israele, soprattutto per le pressioni che questo Paese è in grado di esercitare negli Stati Uniti. Non mi pare che a Washington ci si preoccupi molto delle relazioni con l’Arabia Saudita e gli Emirati».
Perché l’America, sempre più energeticamente indipendente, non ha più bisogno di questi Paesi?
«Gli Usa hanno le mani più libere, certo, ma per cambiare davvero la mappa del Medio Oriente c’è bisogno di un’azione politica a tutto campo e molto aggressiva in tutta l’area: un impegno che fin qui non ho visto».
Per Nasr, insomma, la «shuttle diplomacy» di John Kerry tra Gerusalemme e Palestina non basta.
Fino a che punto si spingeranno, secondo lei, gli iraniani nelle concessioni? Per la costruzione del reattore ad acqua pesante di Arak si parla di rinvio, non di abbandono. L’Iran smetterà di arricchire il suo uranio? Gli ispettori avranno carta bianca?
«E’ quello che aspettiamo di sapere dai negoziatori di Ginevra. L’unica cosa chiara è che la linea del “tutto o niente” caldeggiata da Gerusalemme non è passata».
Meglio nessun accordo che un accordo che non sia onnicomprensivo e definitivo nello sbarrare all’Iran la strada della bomba atomica, dice Netanyahu. E invece?
«Invece si faranno accordi parziali, a un livello inferiore. Le parole chiave sono congelamento e sospensione, piuttosto che eliminazione. Quante centrifughe in meno, quanto arricchimento in meno e per quanto tempo. In cambio di quale alleggerimento delle sanzioni da parte degli Usa e dell’Europa: di questo si sta discutendo».
Anche molti esperti Usa ritengono che sia difficile privare un Paese evoluto come l’Iran di tecnologie nucleari avanzate. Si può solo cercare di bloccare il procedimento materiale di costruzione della bomba.
«Ci vorrà tempo per capire, siamo ancora alle intese preliminari. Certo, è curioso che oggi si lavori attorno a un approccio basato sul congelamento delle capacità: il cosiddetto “freeze for freeze”, che era l’approccio messo sul tavolo anni fa dai russi. Niente di nuovo sotto il sole, insomma. Salvo che, allora, gli americani respinsero quel tipo di approccio».
Massimo Gaggi


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