Un partito in bilico che teme di ritrovarsi diviso e più debole

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L’accelerazione di Silvio Berlusconi, che ha convocato il Consiglio nazionale per il 16 novembre, si conferma una forzatura voluta dall’ala oltranzista; e tesa a rendere ancora più difficile una tregua con i settori filogovernativi guidati dal vicepremier Angelino Alfano. La guerra dei numeri su chi risulterà in maggioranza già prelude ad una conta, però. E l’ipotesi che i sostenitori della coalizione di «larghe intese» o almeno alcuni di loro disertino la riunione del 16, riduce la possibilità di soluzioni indolori. Eppure, Berlusconi ha bisogno di un partito unito per gettarne il peso al momento in cui decadrà da senatore: probabilmente a fine novembre.
Presentarsi in Parlamento senza più l’immagine di leader che tiene insieme almeno i suoi, lo indebolirebbe ulteriormente. È su questa riserva di fondo che Alfano e l’altro ministro tenacemente attaccato al dialogo, Maurizio Lupi, insistono per piegare Berlusconi a sostenere il governo Letta. Sanno che giorno dopo giorno diventa sempre più difficile. Ma confidano anche nella spregiudicatezza di un Cavaliere capace di virate spiazzanti per gli stessi «lealisti» che vorrebbero andare alle elezioni a primavera. Le dinamiche che si sono messe in mot0, tuttavia, non sono facili da fermare. Nei due tronconi in cui è diviso il Pdl, la voglia residua di dialogo si scontra con quella, opposta, di prendere atto quanto prima della rottura.
Tirano in questa direzione sia alcuni dei «governativi», come Roberto Formigoni e Fabrizio Cicchitto, sia gli oltranzisti come Raffaele Fitto e Daniela Santanché, che sognano di vedere un Alfano additato come «traditore» e Enrico Letta fuori da Palazzo Chigi. Ma la situazione non è assimilabile a quella che nell’estate del 2010 vide l’espulsione di Gianfranco Fini, allora presidente della Camera, dal Pdl. Berlusconi sa bene che dietro il suo «delfino» ci sono truppe parlamentari non trascurabili; che lui stesso è notevolmente più debole di tre anni fa; e che dunque da qui a uno o due mesi potrebbe ritrovarsi all’opposizione con un partito spezzato e ridimensionato dai conflitti interni.
In quel caso, Alfano e il suo gruppo darebbero voti decisivi al governo Letta per sopravvivere e continuare la legislatura. Sono variabili che rendono la prospettiva incerta. E non consentono di escludere un simulacro di compromesso finale. D’altronde, anche ieri sera il vicepremier e ministro dell’Interno è andato a cena a palazzo Grazioli, residenza romana del Cavaliere. Significa che i margini di mediazione non si sono esauriti. E comunque, soprattutto ad Alfano conviene che sia chiaro il tentativo di tentare un accordo fino all’ultimo: lo sforzo renderebbe più inverosimile l’accusa di avere «tradito» Berlusconi. Ex ministri come Mara Carfagna, portavoce del Pdl alla Camera, lancia accuse preventive. «Teniamo alta l’attenzione contro ogni intollerabile invasione di campo di certa magistratura. Nessuno si sogni di destabilizzare il Cn».
Le indiscrezioni che vengono fatte filtrare dalla cerchia del capo del centrodestra, però, accreditano la volontà di non accettare il voto di decadenza del Senato; e di preparare una guerriglia parlamentare contro la legge di stabilità. Probabilmente si tratta di altrettante mezze verità, che le oscillazioni berlusconiane finiscono per legittimare. Ma dilatano le incognite su un governo che si rende conto del filo al quale sono appese le riforme istituzionali: quelle che erano presentate come la prima ragione della sua esistenza e della sua proiezione fino al 2015. Lo stesso ministro Gaetano Quagliariello comincia a essere scettico sulla possibilità che si riescano a fare nei tempi sperati: a cominciare da una legge elettorale intorno alla quale si moltiplicano le proposte e le manovre per lasciare tutto com’è.


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